Sono stata (anch’io) una minorenne

Sperare in un mondo diverso e coltivare la bellezza è ancora possibile, nonostante i riflettori dei media mostrino ben altre situazioni.
Adolescenti

Sono un’ex minorenne e non me ne pento. Ho avuto quindici anni, poi sedici, poi diciassette. Risalgono a quegli anni i libri più amati, le poesie mandate a memoria, il primo viaggio con gli amici, le giornate spese per i poveri, le battaglie corpo a corpo con le traduzioni di greco, la fede condivisa dentro una comunità.

In quegli anni il mondo degli adulti mi appariva distante. Uno scarto incolmabile me ne teneva lontana. Il rapporto con l’autorità e il potere non era quasi mai pacificato; ero portata a cogliere ed osservare ogni contraddizione, ogni sbavatura degli insegnanti, degli adulti che incontravo lungo il cammino. Quando ci ripenso mi viene da sorridere, quegli insegnanti probabilmente avevano la mia attuale età.

Tutta l’attenzione era rivolta al gruppo dei pari. Era il tempo delle amicizie assolute, dei sodalizi politici, delle prime sintonie intellettuali, delle confidenze scambiate intorno a una bicicletta, dei primi amori, delle solitudini senza schiarite.

 

È l’età nella quale la radicalità della convinzione rasenta il parossismo, lucidità ed eccesso convivono senza mediazioni. Ricordo un amico del liceo, di formazione laica, che leggendo le pagine della notte dell’Innominato dei Promessi sposi – e nel corso di una notte altrettanto tormentata – aveva compreso l’esistenza di Dio cambiando il corso della sua vita. È l’età delle domande e delle scoperte sul senso ultimo dell’esistenza, delle prime intuizioni sul dolore e sull’amore compresi, forse per la prima volta, intrinsecamente legati.

 

Ricordo le prime garbate attenzioni di un compagno di classe, la sua timidezza goffa, che per la prima volta rivelava a me stessa chi ero. Molta della sicurezza che ho portato con me negli anni dipende da questi incontri gentili e spiazzanti con i coetanei. Ricordo anche come trovassi stonati certi apprezzamenti degli adulti, il cinismo e l’irrisione della giovinezza come di un tempo di illusione.

 

Sono stati anni intrisi di idealità: condividevo con molti amici la certezza che cambiare il mondo fosse possibile, che l’impegno personale potesse sovvertire il corso degli eventi, che fosse nostra responsabilità mitigare le povertà e le ingiustizie, difendere il debole e il reietto.

La minorenne di allora è ancora viva e oggi, in una stagione diversa della vita, sente l’urgenza di indignarsi quando la dignità e la fragilità della giovinezza vengono corrotti dal potere che ritiene di poter manipolare tutto, dal denaro che tutto può comprare, dai modelli televisivi e culturali che omologano la varietà delle nostre vite.

 

Oggi ho una paura e una speranza. Ho paura delle trasformazioni silenziose, della predisposizione ad assuefarsi alle cose più assurde. Temo che la svalutazione della donna entri nelle corde comuni, come qualcosa cui si possa fare l’abitudine. Sento allora il bisogno di riaffermare argomenti che un tempo forse davamo per condivisi: essere disposte a compiacere un uomo potente per fare carriera, è un’ipoteca per la dignità e la libertà delle donne, ottenere un posto di lavoro perché si è più carine (e magari meno preparate) di altre colleghe non ci porterà lontano.

 

Non sarà però un decalogo di buone maniere a salvarci dal cinismo e dall’assenza di idealità. Dovremo passare per una via più stretta, recuperando il sapore di quei sogni, di quegli incontri, di quelle lente scoperte che prendevano consistenza nella ritualità del tempo della giovinezza. E salvaguardarli come un bene per tutta la società. Abbiamo la responsabilità di sperare in un mondo diverso, di coltivare la bellezza e di raccontare ai ragazzi che è più bello darsi un bacio sotto gli alberi di un bosco che nel parcheggio di un centro commerciale.

Elena Granata

 

BOX

La maledizione della brava ragazza

Essere brave ragazze è una maledizione. Così sostiene nel suo recente libro Rachel Simmons, che dieci anni fa ha fondato a Berkeley il Girls Leadership Institute con lo scopo di insegnare alle ragazze ad essere «sincere con sé stesse». E quella della brava ragazza è una veste che proprio non aiuta a riconoscere e far maturare la personalità: troppa perfezione ovunque, a scuola, in famiglia, nella società, impedisce alle adolescenti di scegliere liberamente i modelli da seguire, adottando passivamente quelli proposti dagli adulti.

 

Fin qui tutto vero, soprattutto se ci si riferisce a modelli assai discutibili, generalmente virtuali, per lo più risultato del lavoro di quei persuasori che Packard cinquant’anni fa voleva occulti e che oggi sono fin troppo noti. Ma la Simmons sostiene che un po’ di cattiveria non guasta o più esattamente che ci si è soffermati troppo sui disagi delle ragazze “cattive”, non tenendo in debito conto quanti problemi produca l’aspirazione di tante teen-ager a piacere a tutti i costi.

Anche questo è condivisibile, nella misura in cui realizziamo sempre più quanti disagi (e quanto diversi tra loro) causi il mondo disorientato e mutevole nel quale viviamo. Basterebbe rileggere un paio di libri come Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Stevenson o Il visconte dimezzato di Calvino per ricordarci che la natura umana è duplice, se non plurima. E che ogni tentativo di irrigidire la personalità generi dei mostri di cattiveria o dei noiosi e fasulli modelli di bon ton, in ogni caso dei disadattati talvolta anche piuttosto pericolosi.

 

Quello che non torna è lo stato attuale delle teen-ager: tra loro aumenta vertiginosamente il consumo di alcol e di droghe, la cattiva alimentazione, l’uso reiterato di vocaboli triviali. Qualche anno fa, non sapremmo dire quanti, sui banchi di scuola c’erano dei ragazzotti spavaldi che corteggiavano le ragazze con i loro muscoli, la loro sicumera, il loro ingegno. Oggi ci sono delle ragazzone che trattano i loro timidi e insicuri compagni di classe come peluche.

 

A guardarsi intorno, si nota una riduzione del numero delle “brave ragazze”, mentre appare evidente che l’affermazione della personalità avviene sempre più in modo aggressivo, provocatorio e tutto sommato mascolino. Una ricerca della “Associazione britannica per il controllo della rabbia” risalente al 2009 rivelava che sono sempre più numerose le ragazze che si ubriacano, perdono la testa e ricorrono alla violenza fisica. E tale fenomeno, in gergo delle ladette ovvero dei "maschiacci", è prevalente soprattutto tra le giovanissime che, stanche di essere tormentate dai loro compagni di scuola, ricorrono all’alcol e alla violenza per farsi valere.

 

Se dunque questo è il contesto, le “brave ragazze” sono perdenti in partenza. Ma a cosa gioverebbe un po’ di cattiveria in più? Soprattutto oggi che il disagio di tante teen-ager acqua e sapone nasce prevalentemente dal bisogno di una strenua difesa della femminilità, portata per natura propria piuttosto alla relazione e al dialogo che non all’indipendenza e allo scontro.

Luca Gentile

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