Sono “solo” un interprete
Scintillante, spiritoso. Prêtre è un fenomeno di vitalità. Fisico asciutto, occhi azzurri lampeggianti, una mimica facciale e gestuale che vivacizza la conversazione. Parla, canticchia, commenta. Uno così, ovvio, ha carisma e catalizza da decenni orchestre e pubblico di mezzo mondo. E dire, maestro, che da giovane non pensava di fare il direttore d’orchestra. In effetti, a sedici anni, quando studiavo al conservatorio di Parigi, pensavo alla composizione. Conoscevo le voci, volevo scrivere delle opere. Come secondo strumento, suonavo la tromba. Veramente, al conservatorio mi avevano affidato l’oboe: ma costava 3500 franchi di prima della guerra – quanto un’automobile!, e i miei non avevano i mezzi – così ho scelto la tromba, molto meno cara. La suonavo come sostituto al conservatorio, ma anche nelle orchestre jazz americane, per mantenermi agli studi, perché mio padre era prigioniero. È stata una delle tante circostanze favorevoli, delle grâces, come io le chiamo, della mia vita. Poiché il mio insegnante di tromba suonava all’Opéra, io gli chiedevo di seguire gli spettacoli nascosto dietro ai tromboni, ed è stato allora che ho scoperto di esser fatto per la direzione d’orchestra. Una folgorazione improvvisa? Alle prove di uno spettacolo all’Opéra, la situazione era catastrofica perché il direttore era un grande musicista ma non un interprete. Mi dicevo: Ma perché fa in questo modo e non piuttosto come vorrei io? Poi pensavo fra me: non essere presuntuoso, non sei tu quello che deve dire cosa fare al direttore”. Però là c’è stato il cric, lo scatto che mi ha fatto capire chiaro cosa dovessi fare: non comporre, ma dirigere. Più tardi, è arrivato dalla provincia un direttore, André Cluytens: questo sì che era un interprete! Gli ho chiesto un appuntamento, anche se ero timidissimo; mi ha dato la partitura di Nuages di Debussy: L’aspetto domani. Il giorno dopo, una scena, ci sarebbe voluta la televisione: senza orchestra, senza piano, ho semplicemente cantato. Avevo detto al maestro. Io so che la direzione d’orchestra non si impara, è un dono. Lei mi dirà se ce l’ho o no. Ad un certo punto, Cluytens mi ferma: Perché fa quel gesto?. Se avessi risposto Pardon, sarebbe finita lì. Ho detto: Perché lo sento così. Bravo! Ed è andata. Mi ha dato fiducia, ho iniziato a fare concorsi, è partita la carriera. Ma sono tuttora convinto che questo mestiere – spero che i maestri non si ar- rabbino (ride, ndr) – non si insegna, non si può insegnare come tenere la bacchetta, o come si interpreta. Io ho ricevuto tanti consigli, ma mai ho avuto un maestro. È un qualcosa che ce l’hai o non ce l’hai. Insomma, una delle grâces della sua vita. Sì, è sempre grazie a qualcosa, la tromba, o a qualcuno che sono andato avanti. Ricordo la mia prima volta alla Scala, negli anni Sessanta, invitato dal maestro Siciliani. Arrivai in teatro direttamente dall’aereo. Iniziammo a provare – era il Faust con la Freni e Ghiaurov – e dopo venti minuti all’improvviso l’orchestra si ferma. Si alza il delegato e fa: Maestro Siciliani, grazie per il regalo di natale! – era la vigilia. Sul momento non ho capito. Quando mi hanno spiegato che ero io il dono, mi sono veramente commosso. Così ho iniziato a dirigere alla Scala. Diciotto anni, anche due opere all’anno, mai però Verdi, riservato ai direttori italiani (ironizza, ndr). Ma mi sono rifatto dando prima della Scala il Don Carlo integrale alla Fenice di Venezia” Poi, grazie a Karajan, si è aperta Vienna, dove ho diretto spesso la Filarmonica e i Wiener, tanto che mi sento ormai anche viennese: ho interpretato tutto Mahler, Wagner, Bruckner, non tutto Mozart perché ci vorrebbero due vite. Oltre a quelle europee, da Roma a Parigi, da Dresda a Stoccarda, ha diretto le orchestre americane. Mai sentita la voglia di fermarsi negli Usa? Ci sono arrivato dopo sette anni a Parigi, all’Opéra Comique, nel ’65. Mi sono state proposte delle grandi orchestre stabili, ma il contratto era molto duro – si doveva restare almeno dieci mesi in America – e io ho scelto allora l’Europa. Comunque, ho diretto il repertorio italiano, francese, tutto il Ring di Wagner, mai però la Filarmonica di New York. Leonard Bernstein, mio grande amico, mi ha chiesto una volta: Ma non sei mai venuto da noi!. E io: Non mi hai mai invitato! (ride, ndr). Il fatto è che io amo essere libero: sono fidanzato con le orchestre, non sposato. Cioè non mi piace avere un’orchestra fissa: me l’hanno proposto anche a Vienna di diventare direttore artistico dei Wiener, io ho accettato di essere piuttosto primo direttore ospite, nell’86, non avere un incarico stabile. Anche perché dovrei fare l’amministratore. E credo fermamente che uno non può avere due doni, essere interprete e amministratore. È una sciocchezza pensare che sia possibile (si anima, ndr). Lei usa spesso il termine interprete piuttosto che quello di direttore. C’è un motivo particolare? La musica è l’arte più complessa e difficile, perché il suono è aereo, passa. Io mi sono occupato di regia e di pittura. Un quadro resta, la musica ora c’è e poi scompare. Un interprete – è la parola che preferisco – deve servire la musica, non servirsi della musica, e quando facciamo un gesto non dev’essere per far bella figura, ma perché serve a qualcosa, anche gli sbagli servono: ci vuole tanta umiltà, siamo solo degli interpreti, pur esprimendo fino in fondo il nostro pensiero. Ed un interprete dovrebbe anzitutto avere il dono di saper comunicare. Un cantante respira per cantare, un direttore per interpretare. Non è la stessa cosa. Anche perché il mio strumento – l’orchestra – è materiale umano, strumento magnifico, ma il più duro. Io amo paragonare l’orchestra ad un cavallo di razza, e il direttore al fantino: l’orchestra, già prima che io salga sul podio, intuisce il salto che potrà fare, perché un’orchestra ha una sua personalità, un suo carattere, sta al fantino influenzarla, allentare o tirare le briglie” Ad esempio, non capisco i direttori che lavorano in contemporanea con due o tre orchestre, che so negli Usa ed in Europa” Mi sembrano dei poligami, perché non è possibile e nemmeno giusto – secondo me – dare tutto sé stesso, tutto l’amore a varie orchestre, ma a una sola. E io amo quell’orchestra e quel brano che dirigo quella sera. Come non capisco chi parla di suono italiano, francese, tedesco a seconda delle nazionalità delle orchestre: una sciocchezza! Il suono cambierà secondo il movimento del direttore, non dipende dalla nazione!. È ormai entrato nella storia il suo sodalizio artistico con Maria Callas. Maria era speciale, per me lei è l’artista ideale. Ho conosciuto altre grandi cantanti, come la Tebaldi, con una voce più bella, ma lei era completa, un animale da palcoscenico: ricordo una Norma. Già quando appariva sul fondo, prima ancora di aprir bocca, succedeva qualcosa, c’erano delle onde che passavano: non c’era solo la voce, ma l’interpretazione, la presenza. Quando si provava al piano, non ci parlavamo molto, ci capivamo comunque. Poi, nella vita era una donna fragile e gentile, che ha pagato cara la notorietà. Ricordo le polemiche per la sua Norma interrotta qui a Roma: ma stava male! E un’artista, quando è malata, non può cantare neanche per il papa” Maria veniva spesso a casa mia, anche con mia moglie, perché non aveva molti amici. Io dico sempre che lei non è partita, è nel mio cuore, è ancora qui (si commuove, ndr). Torniamo al suo lavoro. Lei passa per uno specialista del repertorio francese. Perché sono francese” Ma no!, questa è un’invenzione giornalistica, soprattutto italiana. Io non amo le etichette, e non mi considero un musicista francese. Ho diretto tutto il repertorio, fino a Messiaen, che era il mio maestro, mentre Poulenc mi ha voluto come suo interprete (gioca sul nome inter-Prêtre , ndr). Certo, quello che non mi piace, non lo faccio. Ad esempio io sono uno bagnato dalla musica, mi interessa tutta – da giovane ho suonato pure il tango -, ma non mi sento in grado di interpretare quella contemporanea, perché non la capisco. E non c’è niente da interpretare molte volte” E siccome sono soltanto un interprete, non ho il diritto di fare il traditore. Ultimamente poi ho rinunciato all’opera, che amo tanto, perché esige troppe prove e poi ormai ci sono registi che vengono dal teatro e non conoscono la musica, non la servono, come i grandi con cui ho lavorato anni fa. Allora mi dedico alla sinfonica, dove se sbaglio, almeno sono da solo. Quest’anno, maestro, il 14 agosto, siamo agli ottanta. Come fa a mantenere una forma così splendida? Beh, perché la bacchetta è di legno e porta fortuna; e poi grazie a mia moglie con cui siamo sposati da più di cinquant’anni! (ride, mentre l’accoglie con un viens, chérie! ndr). Io riposo molto, posso addormentarmi ovunque, in taxi, in aereo. Sono una vecchia cintura nera di judo, quindi mi concentro facilmente, e recupero. Cosa importantissima per chi fa il mio mestiere. Del resto, l’arte marziale è l’arte del pensiero, dell’autocontrollo: un pensiero diretto ad un punto che per i credenti è Dio, o l’universo per chi non lo è. Comunque, ora per me diventa faticoso viaggiare, anche se per dirigere quasi dovremmo pagare noi anziché essere pagati. Infatti, quando sono sul podio è un momento bellissimo. Scompaiono tutti i problemi, esiste solo la musica. Lei ha debuttato a Marsiglia, nel ’46, a ventidue anni. Da allora ha girato il mondo. C’è qualcosa che le dispiace di non essere riuscito a fare nella sua vita? Sì, l’essere un padre per i propri figli, dare più tempo alla famiglia: è la cosa che rimpiango. Ricordo che una volta, in sei mesi ho diretto in contemporanea diverse produzioni in Europa, stando lontano da casa”! Ma ora, con la saggezza degli anziani, limiterò i viaggi, farò i programmi che mi interessano, starò con mia moglie e i miei due figli, Jeanne e Renaud. Vorrei anche scrivere una specie di autobiografia con il mio nipote di diciott’anni. Comunque, sarà ancora molto occupato in giro per l’Europa che la vuole festeggiare. Beh, hanno iniziato qui a Santa Cecilia, dove sono arrivato nel 1962; poi sarò a Dresda, al Musikverein di Vienna in primavera (in mondovisione, ndr), a Tolosa, dove vivo, a Salisburgo il 14 agosto, e a novembre a Parigi, agli Champs Elysées. Tornerò a Roma l’anno prossimo anche per una Carmen in forma di concerto” Insomma, farò dei piccoli giri per ringraziare tutti, ogni anno, un po’ in Italia, in Francia, a Vienna, a Berlino ” prima di finire in purgatorio!.