Sono qui da una vita
Studiare e raccontare le “seconde generazioni”: intervista ad Anna Granata.
«Ero l’unica bambina di origine straniera nella mia scuola e mi ero imposta – forse incosciamente – di dover fare l’italiana a tutti i costi, per non essere diversa dagli altri. Come? Cercando il più possibile di insabbiare le mie radici arabe, fino a quella fatidica data, l’11 settembre 2001, dopo la quale tutto nella vita è cambiato».
È Rassmea Salah a raccontare la sua infanzia da straniera a Milano in un libro scritto da Anna Granata, psicologa e dottore di ricerca in Pedagogia. Sono qui da una vita raccoglie tante storie che, come quella di Rassmea, dicono la sfida dell’integrazione e contemporaneamente della ricerca di identità. «Subito dopo l’attentato alle Twin Towers la mia professoressa di italiano decise di darmi una delle sue ore per farmi sedere in cattedra e spiegare ai miei compagni cosa fosse l’Islam. È stata per me una grande occasione: ho sbirciato dentro un mondo che fino a quel momento era stato per me sconosciuto», conclude Rassmea, ora laureata in
studi arabo‑islamici.
E in un mondo che crediamo forse di conoscere, ma in effetti ha tanti aspetti inesplorati, ci introduce il libro di Anna Granata pubblicato da Carocci, che ripropone alcuni risultati della sua tesi di dottorato.
Cosa l’ha spinta ad elaborare questa ricerca?
«Ho sempre avuto una passione per la mia città, Milano, e per le sue molteplici anime, per cui avendo avuto carta bianca per i miei tre anni di ricerca in pedagogia interculturale, ho scelto di incontrare giovani che vivono a Milano come me da una vita e che però, nati in Italia da genitori stranieri, hanno radici in altri Paesi. Come dice il sottotitolo del libro sono entrata in “dialogo con le seconde generazioni”, cioè con i miei coetanei; ne ho incontrato un centinaio e ho ascoltato le loro storie. Ogni capitolo del libro, poi, inizia con una pagina scritta da uno di questi giovani, proprio perché ho ritenuto fondamentale dare a loro la prima parola su ogni argomento».
La maggior parte dei giovani incontrati sono nati e vissuti sempre in Italia o conoscono il loro Paese d’origine?
«Entrambe le cose. Molti sono nati qui o sono arrivati quando avevano 20 giorni, sei mesi, un anno, quasi tutti in età prescolare. Si sentono italiani, sebbene non abbiano la cittadinanza italiana nella maggior parte dei casi, e molto spesso custodiscano un legame forte con il Paese di origine, senza contraddizioni».
Come si trovano in Italia e a Milano?
«Nella memoria di molti c’è spesso il ricordo di qualcuno che a scuola ha fatto notare loro di essere diversi, il giorno in cui la maestra ha attribuito loro un nome italiano anziché cinese perché più semplice da pronunciare e si sono sentiti non riconosciuti. Sono esperienze che sicuramente hanno inciso sulla loro vita, soprattutto nella fase dell’adolescenza. Crescendo, invece, molti di questi ragazzi, hanno imparato a gestire le proprie differenze come una ricchezza, magari riunendosi in associazioni».
Quali sono gli aspetti della vita di questi giovani che sfuggono a tanti di noi?
«Le cose che possono sfuggire sono da una parte una normalità di vita che li rende più figli della propria generazione che figli dei propri padri. Ci sfugge ad esempio la precarietà che condividono con la realtà giovanile in Italia o la difficoltà di integrarsi all’interno delle proprie comunità di origine. Questi giovani, se dagli italiani sono percepiti come stranieri, rischiano di esserlo considerati anche nei loro Paesi di origine, perché magari quando vanno in Cina in vacanza dai propri nonni vengono guardati come occidentali. Da una parte, quindi, c’è la difficoltà, dall’altra un esercizio straordinario di traduzione culturale e linguistica tra i due mondi di appartenenza».
Lei parla di un’ottica educativa a proposito del suo studio. In che senso?
«Questo è un libro che si rivolge sicuramente a qualsiasi cittadino interessato al tema, ma in modo particolare a insegnanti, educatori, persone che hanno a che fare con la crescita delle nuove generazioni caratterizzate sempre di più da questo pluralismo culturale e religioso. L’idea è stata quella di ascoltare i pionieri di quest’esperienza, quelli che si sono trovati a scuola come l’unico bambino di origine straniera della classe o addirittura della scuola (oggi nelle nostre scuole la percentuale è molto più elevata). Ascoltare quello che hanno vissuto questi giovani durante la crescita può dire qualcosa a chi si trova oggi ad accompagnare la crescita dei nuovi figli di immigrati».
Quanta parte abbiamo noi nella sfida dell’integrazione che questi nuovi cittadini si trovano ad affrontare?
«Sicuramente siamo tutti interpellati. Certo, ci auguriamo che cambi presto la legge sulla cittadinanza; ma ciò che rende “italiani” questi nuovi cittadini non è soltanto un pezzo di carta ma il nostro sguardo che può riconoscerli già come italiani. Si tratta di un percorso che non possiamo fermare perché le nostre società sono sempre più multiculturali, e dunque è importante quanto possono fare educatori e insegnanti per renderle il più possibile interculturali».