Sono proprio pessimista ?

Ogni tanto, anzi ogni poco, qualcuno mi dice che sono pessimista. A parte il ricordo di Paolo VI, un santo, che a chi gli domandava perché non ridesse mai chiedeva a sua volta cosa ci fosse da ridere, devo dire che prima davo lunghe e articolate spiegazioni sul mio realismo (non pessimismo, perché sia questo che l’ottimismo a un cristiano non servono, non bastano), oggi mi limito ad esclamare: Magari! . Infatti mi piacerebbe sbagliarmi, evidentemente le cose andrebbero meglio, ma occorre dimostrarlo. Quando ero ragazzo e giovane ho sofferto quasi tutte le angosce della terra, vedi Giobbe e Qoèlet, poi una conversione seria, e che continua, le ha trasformate a poco a poco in croci, non le ha eliminate né accomodate. Oggi non posso leggere un giornale o guardare un telegiornale, con le loro terribili cronache, senza pregare, e le persone lì nominate, e molte di quelle che incontro per strada, le raccomando a Dio e alla Madonna. L’eterno riposo che pronuncio (non: recito) mattino e sera lo dico anche per me, potrebbe essere anche il mio giorno (o no?). Trovo che queste, le preghiere del mattino e della sera, siano l’essenziale della giornata: se non sono recitate rimettono in Dio, e fanno rimpicciolire di molto la terra; insieme alla santa messa, in cui si raccoglie, converge e trova pace (ma quella di Cristo) tutto. Quando studiavo alle medie mi insegnarono, nell’ora di disegno, a squadrare il foglio: tracciare le diagonali, poi a partire dagli angoli su ciascuna di esse segnare i punti equidistanti, quindi unirli in una cornice, cancellando il resto, ed ecco squadrato il foglio. Da allora penso che ogni discorso sia inutile se soltanto si parte da qui e si arriva un po’ più in là (come su una semiretta, da B a C: che m’importa, se non conosco l’origine A e il termine, che è infinito?), se non si squadra prima il foglio. Per me la cornice è: la vita è breve, la morte è certa; forse non c’è da ridere, ma è difficile smentire. I discorsi correnti, che fanno soprattutto i sedicenti intellettuali e tutti quelli che parlano di tolleranza invece che di amore (è più facile essere indifferenti che dare la vita), mi sembrano come quelli di chi, alla notizia che il treno per Milano è partito alle otto, replicano: bisogna vedere in che senso, e poi partire o non partire è una scelta, si devono rispettare le differenze e la privacy. Mi spingo a dire che non sono affatto pessimista, il mio diario spirituale dal titolo Supernet, che sarà reso noto (se sarà reso noto) rigorosamente postumo, lo dimostrerà. Solo che avendo preso sul serio, nonostante i miei peccati, Dio, questa vita terrena e l’altra, i santi, non riesco a sopportare una chiacchiera (pretenziosa) che sia una, e anche le immagini-chiacchiera e le musiche-chiacchiera; e i compromessi fra il tragico e lo spensierato. In realtà vivo tra un grande sgomento e una grande letizia: lo sgomento è oggettivamente provocato dai mali di questo mondo (che è tutto sotto il potere del maligno, prima lettera di Giovanni 5,19), e soggettivamente dai miei limiti umani; la letizia, da Cristo che dice: Io ho vinto il mondo (Giovanni 16,33); lo dice lui che dopo aver chiesto agli apostoli di non turbarsi, si turba a sua volta e ha paura e suda sangue, ma sulla croce raggiunge una pace indescrivibile (Tutto è compiuto, Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito). Se qualcuno mi parla di un essere contenti al di fuori della pace inchiodata della Croce, mentre sento dentro di me i coltelli delle mille sofferenze del mondo, con i loro nomi e cognomi, gli chiedo solo di svegliarsi se può. Come possono convivere e compenetrarsi dolore e gioia, dopo molti anni l’ho capito vivendolo, vivendo il loro comune denominatore che è l’amore, che li comprende entrambi e li trascende (come in tante apparizioni mariane di sorrisi e lacrime). Perciò ora so che non importa vivere o morire, importa amare vivendo o morendo. Questo è il segreto del cristiano perché è il segreto di Cristo, che ha redento il mondo non mi pare ridendo, e del Padre, che ha creato il mondo non certo per tristezza ma neppure per divertirsi. Il gigantesco segreto, come lo definisce Chesterton, di Dio, è appunto la sua perfetta letizia (vero, san Francesco?), cioè la Trinità, che è un continuamente perdersi per donarsi, un vivere nel-per l’Altro, superando il tragico del morire a sé stessi con il più grande amore (Dio è Amore) che lo decide, lo attua, lo trasfigura. Per questo sono giunto, unicamente per grazia di Dio, a sentire un po’ come funziona l’Aldilà, a desiderarlo – ma solo se e quando sarà volontà di Dio, altrimenti sarebbe egoismo: io non sono io, sono tutti i miei rapporti di amoreservizio- presenza-dono (a fondo perduto); solo Dio può decidere di trasferirli (-mi) nella patria che solo amore e luce ha per confine (Dante). Perciò prego il lettore di considerare i miei presunti pessimismi solo sguardi fermi (giusti, spero) e testamenti, se gli piace, in progress.
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