Solo granito e ghiaccio
Non esiste al mondo un monolite di roccia e ghiaccio aspro ed affascinante come il Cerro Torre. Con il vicino Fitz Roy rappresenta la boa andina del sud del mondo, la montagna più vicina a Capo Horn, dove le forze dell’oceano, Pacifico da una parte ed Atlantico dall’altra, sferzano questa enorme guglia di granito, alta tremila metri, con correnti gelide ad oltre cento all’ora che rendono la incredibile verticalità della parete ancora più inaccessibile e pericolosa, rivestendola di un involucro di ghiaccio in continua metamorfosi. L’isolamento dei suoi ghiacciai che esclude ogni possibilità di soccorso, la difficoltà delle pareti sferzate da un vento che castiga il fisico e deprime la mente, le snervanti attese di settimane imposte dal clima ostile, rendono notoriamente la Patagonia e le sue cime una fabbrica di insuccessi. Qui c’è pane per i tuoi denti!. Con questa provocazione Cesarino Fava, alpinista trentino emigrato in Argentina, invitava, nel ’52, il conterraneo Cesare Maestri, che conosceva solo per la sua fama di ragno delle Dolomiti, a raggiungerlo in Patagonia per scalare la montagna impossibile, il Cerro Torre. Campo base, El Chaltèn, 650 metri di quota nel pianoro sotto il Torre. Quello che era un precario avamposto abitato è oggi una piccola cittadina, in crescente sviluppo: una manciata di casette colorate, alberghetti, ristoranti, negozi. Dal 1985, anno della costruzione del ponte sul rio Fitz Roy e dello sbarco delle centinaia di persone della troupe cinematografica di Werner Herzog, catapultata lì per girare Il grido di pietra, El Chaltèn è divenuto l’emblema della colonizzazione alpinistica, della fine di un’epoca per questa terra incontaminata, avvolta per secoli nelle tenebre dell’ignoranza geografica. In Patagonia sbarcarono, a fine Ottocento, i primi coloni attirati dalla febbre dell’oro e dalle possibilità di allevamento di ovini. Con loro i missionari salesiani che si opposero strenuamente, per decenni, all’eccidio degli indios, sterminati alla fine dai colpi di fucile o dalle nuove malattie infettive (morbillo, scarlattina) portate dai bianchi verso le quali non possedevano anticorpi. Proprio un salesiano, don Alberto De Agostini, padre Patagonia, inviato nel 1909 a Punta Arenas, scalo marittimo sullo stretto di Magellano, contribuirà a far mutare per sempre il destino di queste terre. Al salesiano biellese, che battezzò più montagne che bambini, si deve una documentazione di eccezionale valore artistico e storico: mentre il fratello fondava in Europa la Cartografica De Agostini, don Alberto, in trent’anni di vita missionaria, esplorò migliaia di chilometri di territorio sconosciuto, tracciò cartine dettagliate senza l’ausilio di immagini aeree o satellitari, girò uno straordinario documentario, scattò foto di rara bellezza che fecero entusiasmare delle vette patagoniche gli alpinisti di tutto il mondo. La storia del Cerro Torre è concatenata a quella di Cesare Maestri, suo malgrado. Il 31 gennaio del ’59, al secondo tentativo, Maestri, accompagnato da Toni Egger, forte alpinista austriaco, un mago sul ghiaccio, violò la cima: nella discesa una valanga fece precipitare l’amico. Con lui scomparve la macchina fotografica e la prova dell’avvenuta ascensione. Maestri fu costretto a scendere da solo, cadde a sua volta e venne trovato 48 ore dopo in fin di vita sul ghiacciaio e salvato da Cesarino Fava. La difficoltà della via, tuttora irripetuta, ed i tempi ridotti dichiarati per compiere l’ascensione, alimentarono, negli anni successivi, seri dubbi sulla veridicità dell’impresa. Maestri, offeso ed infuriato, nel ’70 sfidò il mondo alpinistico annunciando di voler tornare sul Torre, scegliendo la via più difficile, la verticale parte sud, la stagione più dura, l’estate australe, ed uno stile provocatorio al massimo che susciterà reazioni in tutto l’ambiente alpinistico: per piantare i chiodi a pressione portò con sé un compressore di 150 chili da issare a forza di braccia sulla parete. Dopo un primo tentativo fallito, all’alba del 2 dicembre mette i piedi sulla roccia della cima. In discesa, in preda ad una incontenibile furia, Maestri taglia le corde fisse e spezza a martellate i chiodi a pressione; il compressore, messo fuori uso, lo abbandona appeso in parete, a 30 metri dalla cima, dove dondola tuttora, provocatoria testimonianza dell’impresa. Il geniale, innovatore ed irriverente alpinista svizzero Marco Pedrini salì per primo, ed unico finora, in solitaria il Torre nel ’86 sulla via del compressore: nel film della scalata, Cumbre, girato da Mariani, cavalcò allegramente il compressore. Ma proprio la distanza fra quest’ultimo ed il culmine del mutevole fungo di ghiaccio, alto da trenta a cento metri, a seconda delle condizioni meteo, che stabilmente orna la vetta come una meringa, scatenò in breve tempo ulteriori dubbi e polemiche anche sulla seconda impresa di Maestri: Siamo arrivati in cima alla roccia – ammise -, dove ho lasciato il compressore: il fungo di ghiaccio è qualcosa in più, non è il Torre. Recentemente, con profonda amarezza, ha confessato: Vorrei che il Torre non esistesse, anzi mi auguro che crolli. Voglio vederlo ridotto ad un cumulo di macerie. Lui a me ha fatto soltanto male, ha distrutto la mia vita. Nel ’74 i Ragni di Lecco salirono in quattro fin in cima al fungo in quella che oggi viene riconosciuta, a torto o a ragione, come la prima indiscussa ascensione alla montagna.