“Sogno un Sud Sudan senza divisioni tribali”

Il racconto di un volontario dell'associazione "Sign of Hope" su quanto sta avvenendo nello Stato africano appena tre anni dopo l'indipendenza. Basta vendette e lotte per il potere, bisogna costruire insieme il futuro del Paese
Sfollati in Sud Sudan

Della situazione in Sud Sudan e nei territori circostanti abbiamo parlato più volte su cittanuova.it: dal silenzio su quanto sta avvenendo sui Monti Nuba alla testimonianza del vescovo Macram Max Gassis, al lungo percorso verso l’indipendenza, fino alle questioni che ancora rimangono irrisolte, abbiamo sempre cercato di rendere conto delle vicende che coinvolgono questo Stato grazie alla voce di testimoni diretti.

A tre anni e mezzo dall’indipendenza, ottenuta il 9 luglio 2011 tramite referendum dopo una sanguinosa guerra civile finita nel 2005, ci giunge la testimonianza di Mabor Simon (di cui omettiamo il cognome per motivi di sicurezza), volontario sud sudanese dell’associazione "Sign of Hope", che offre assistenza ai compatrioti di ogni etnia. Dopo alcuni disordini a Nhial, dove vive, la sua famiglia è dovuta fuggire; in quanto a lui, non disponiamo al momento di notizie certe. Diamo così voce alle sue parole, inviateci prima dello scoppio delle violenze.

«In Sud Sudan siamo tutti molto delusi dal conflitto che affligge il Paese. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Abbiamo accolto gli accordi di pace del 2005 come un dono di Dio, le elezioni del 2010 ci hanno legati ancor di più tra le diverse tribù, e il presidente Salva Kiir ci ha guidati all’indipendenza nel 2011. Che cosa è andato storto, allora? Semplicemente, i nostri politici sono stati incapaci di gestire il nuovo Stato per la loro sete di denaro e di potere. Non possiamo accettarlo, dobbiamo ripensare il nostro modo di vivere per una coesistenza pacifica e l’unità. Il Paese ha bisogno del contributo di tutte le tribù.

«Quando ero piccolo, non conoscevo nemmeno la parola “tribalismo”. A scuola ero l’unico di etnia nuer, studiavo con compagni dinka, e ho scoperto la bellezza della diversità delle culture. Un giorno mi sono ammalato, e i miei amici dinka mi hanno accompagnato a casa e si sono presi cura di me finché non sono stato meglio. Nessuno avrebbe mai pensato di fare del male all’altro perché non eravamo della stessa tribù. Ma quando sono cresciuto, la gente attorno a me ha iniziato a diffondere questa dottrina del tribalismo, che è il male che oggi affligge la nostra nazione e ci mette gli uni contro gli altri. I nostri leader politici devono capire che non possono essere tali solo per una tribù: dobbiamo perdonarli e perdonarci, vedendoci con occhi nuovi. Non è facile, ma vedere i nostri nemici come nuovi è l’unico modo per distruggere alla radice il desiderio di vendetta.

«Il 15 dicembre sono riprese le violenze nel Paese, e i nostri leader non sono stati capaci di gestire la pace. Ma è solo una questione politica, che non ha nulla a che fare con l’essere dinka o nuer: è la nostra ristrettezza di vedute, di cui dovremmo vergognarci, che ha ucciso gente innocente nelle strade di Juba. A vantaggio di chi, poi? Dobbiamo imparare dal passato, per costruire un futuro per noi e i nostri figli. Abbiamo la responsabilità di costruire questo Paese per loro: accettiamola».

Traduzione a cura di Chiara Andreola. Nella foto: una madre col figlio dormono in un campo per rifugiati.

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