Sogno un Mediterraneo di fraternità

Sono 24 i popoli che condividono la ricchezza del “mare nostro”. E se le culture riuscissero ad incontrarsi? Quanta speranza nell’immaginarci uniti, quale gioia nel riconoscersi fratelli e sorelle!
Foto Pexels

Quando Margaret Karram ci ha confidato il suo sogno: un Mediterraneo di fraternità, che si fa spazio di accoglienza, di dialogo, di apertura nuova…, l’ho fatto subito mio e mi sono interrogata su come realizzarlo nel mio piccolo.

Ho cercato su Internet una mappa geografica di questo mare che gli antichi, incominciando dai romani, chiamavano “nostro” per vedere quanti Paesi si affacciano su di esso. Non mi aspettavo fossero così tanti! È un caleidoscopio di popoli, di civiltà, di arte, di usi, di abitudini e di culture che si mescolano e che dovrebbero arricchirsi l’un l’altro.

Ma non è ancora così! Quanti muri, barriere, differenze, pregiudizi ci dividono! Come far capire che essendo affacciati sullo stesso mare, non c’è fra noi nessun popolo migliore o peggiore degli altri, ma che siamo uguali e in cammino per migliorarci ogni giorno?

Occorre che io per prima passi ai fatti, ma da dove incominciare? Parto da un consiglio di Margaret: mettersi in dialogo con l’altro, dargli fiducia perché dialogare ci fa andare oltre la paura!

Mi viene un’idea: posso partire dal mio condominio dove viviamo in 16 famiglie. Negli ultimi due anni ne sono arrivate 7 nuove, provenienti proprio da Paesi affacciati sul Mediterraneo. Facendo da tramite tra la nostra amministratrice e i vari condomini, sono già in contatto con ciascuna di loro.

In questi 32 anni che vivo qui, ho fatto conoscere a tutte Città Nuova, alla quale in 4 si sono abbonate, apprezzando nel giornale questa sua apertura a 360 gradi verso ogni cultura e verso ogni popolo. I bambini poi, entusiasti del giornalino Big Bambini in gamba che avevo lasciato loro in dono, hanno voluto abbonarsi.

Così pure uno dei figli adolescenti di una famiglia albanese, abbonato a Teens da due anni, fa parte da poco della redazione del giornalino e, vincendo la sua enorme timidezza, sta mostrando agli altri suoi coetanei del condominio la novità e la ricchezza di un giornale scritto dai ragazzi per i ragazzi.

E così altre cinque 5 sono state coinvolte in un cammino di unità. Sono piccoli, ma preziosi semi che ci hanno legato parecchio tra noi.

Mi sono accorta però, che i nuovi arrivati non si sono ben integrati e che qui e là ci sono dei malumori, qualche incomprensione da parte di chi abita da più tempo. Sicuramente ciò è dovuto alla diffidenza, alla scarsa conoscenza reciproca

Scoppiano dei litigi perché qualcuno dei nuovi arrivati lascia sempre il portone d’ingresso aperto, oppure negli spazi condominiali comuni lascia biciclette, passeggini, motorini, o addirittura una moto, nonostante ci sia un locale adibito a deposito mezzi di trasporto a due ruote. Che fare? Ne ho parlato con l’amministratrice, anche lei abbonata a Città Nuova, e abbiamo deciso di convocare un’assemblea straordinaria chiedendo la partecipazione di tutti per comunicazioni della massima importanza.

Ad un certo punto mi è nata l’idea di una cena per stare insieme e favorire la conoscenza, in cui ogni nucleo familiare può condividere una pietanza oppure dei dolci o delle verdure, o canti, poesie, detti tipici del Paese di provenienza.

A metà aprile c’è stata l’assemblea in cui si è avuto modo di chiarire tanti aspetti della vita di condominio, del rispetto da portare alle persone, ma anche agli ambienti in cui viviamo da tanto o da poco tempo. Intanto, ogni famiglia nuova si è presentata con le sue caratteristiche, le sue richieste, anche di aiuto concreto.

Ad un certo punto mi è sembrato di trovarmi ad un incontro serale delle Mariapoli di una volta, dove si raccontava la vita così com’è, con le sue ombre e le sue luci, con la sua fatica. Una coppia con tre bimbi piccoli si è addirittura scusata se i loro figli fanno chiasso: ha messo tappeti dappertutto, ma non può impedire loro di cantare e di ridere.

Dieci giorni dopo c’è stata la cena, la cui preparazione ha comportato tanto impegno da parte di tutti, ma anche mio! Quanta stanchezza anche per comprendersi visto che pochi parlano italiano… Ma ne è valsa la pena!

C’eravamo tutti in una sala grandissima piena di tavoli, ma soprattutto di allegria, di colori, di mani che si stringevano per la prima volta, di cibo dei vari Paesi condiviso e gustato! Nomi italiani si mescolavano a quelli come Nayem, egiziano e siriano; Anowar, arabo; Asmelash, etiope; Yosef e Shira, israeliani; Khalid, marocchino; Alejandro e Felipa, spagnoli.

Alla fine, Anowar ha detto: «Il mio nome significa luminoso, splendente. Dopo questa serata sarò ancora più luminoso». E Shira ha aggiunto: «Il mio nome significa canto, gioia: stasera canto per gioia di essere in un posto di case amiche». Una bimba israeliana, Miriam, ha chiesto se poteva recitare una preghiera: «Togli tutte le colpe, accetta ciò che è buono, ti siano gradite le parole della mia bocca».

Avrei voluto che Margaret potesse di nascosto collegarsi… Avrebbe pianto e gioito con me nel vedere che è faticoso, ma possibile, realizzare il sogno di un mondo e di un Mediterraneo di fraternità, perché Qualcuno lassù ha dato la propria vita perché noi potessimo attuarlo nel tempo che ci concederà.

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