Sognando la Patagonia

L’avevano anche ripreso Simon & Garfunkel in un loro brano fortunato, il canto popolare delle Ande El Condor Pasa. Forse l’avete presente. È musica come quella, che emana una tristezza evanescente, dove ogni nota del flauto andino sembra inseguire il volo silenzioso del condor e gli impercettibili battiti d’ala che alludono a spazi immensi e inaccessibili… è musica come quella che accompagna le pagine di Polvere nelle Scarpe. Il bel libro della alpinista, geologa e scrittrice Silvia Metzeltin, che di Patagonia ne sa qualcosa: lì, con il marito Gino Buscaini ha compiuto tanti viaggi di esplorazione e tantissime ascensioni. La Patagonia la conoscono gli alpinisti che hanno violato le leggendarie e romantiche solitudini del Cerro Torre e del Fitz Roy. E anche gli immigrati che alla fine della Seconda Guerra mondiale, un po’ disperati un po’ attratti dagli incentivi del governo di Peron, hanno provato la vita della pampa. Gente che poi, con il crollo del pesos, si è ritrovata più povera di prima. Nel nostro immaginario occidentale, la Patagonia – prima dell’epoca del turismo esotico del “prendo il primo aereo e scappo” – evocava terre lontanissime e misteriose, nelle quali alla fantasia era concesso di viaggiare in modo assoluto, senza confini. Nelle quali poteva rifugiarsi per sfuggire situazioni anguste e opprimenti. Là – tra i ghiacciai spaventosi delle Ande, nel fascino silenzioso degli spazi brulli battuti da venti indomiti, dove animali favolosi dominano spazi troppo enormi per essere terre d’uomini – là, era un nuovo mondo, totalmente diverso, nel quale era possibile respirare, ricominciare. Nel quale pareva possibile una nuova vita. Ma il mondo che ci racconta Silvia Metzeltin non è il mondo mitizzato della lontananza. È un mondo spietatamente reale, sebbene dominato dalla poesia; che, se autentica, è la chiave più verace per leggere il reale. Nelle pagine del suo libro, la Patagonia andina e cilena dalla costa dell’Atlantico a quella del Pacifico, appaiono nella loro unicità di terre bellissime e difficili. Ma non sono loro le protagoniste. Quei territori immensi di distese di fiumi, di laghi, di vulcani – dove si può camminare per giorni interi accompagnati dal movimento maestoso dei cirri bianchi prima di incontrare una fattoria, di scorgere un gregge, di parlare con qualcuno – sono soltanto lo sfondo sul quale emergono vicende di uomini e di donne che a questo pezzo di creazione sono visceralmente legati. Ci imbattiamo in storie di contadini, di pescatori, di minatori, di vagabondi: vite perennemente in bilico con le forze naturali; in un paese in continuo cambiamento storico, sociale ed economico. In luoghi dove manca tutto quello che per noi occidentali sembra essere “normale”: dove la vita è dura e povera, estremamente essenziale. Incontriamo così Filodoro Fuentes, il ragazzo a cui non piaceva la vita del campo e voleva andare negli Stati Uniti ma che andò soltanto al primo villaggio e lì rimase; e il patetico peon che s’innamora di una scalatrice italiana; Hortensia Gastaminza che, stanca della vita infame, un giorno prese i pochi soldi, la borsa nella quale aveva riposto un po’ di biancheria, e senza salutare né i figli sfaticati, né le pecore né l’orto né le galline se ne andò per prendere il primo autobus per Chile Chico; e Don Emilio poverissimo e sorridente, ricco di quello che sembra serenamente capace di non possedere: istruzione, sicurezza sociale, una casa, forse una moglie. Tutte storie di vite povere e solitarie che scaturiscono dall’esperienza diretta dell’autrice e che danno corpo a un romanzo a più voci nel quale i vari personaggi ci aprono le porte ad una cultura lontana, altrimenti preclusa alla nostra sensibilità ed al nostro modo di vivere nella globalizzazione. Ma nonostante la distanza chilometrica e culturale, dietro ogni storia vibra quel qualcosa di autenticamente umano che unisce le loro vite alle nostre. Così questo libro diventa l’esperienza di un incontro. E in ogni incontro genuino, al di là delle latitudini e delle abitudini di vita, ci si accorge di essere tanto diversi quanto simili, per i sentimenti primordiali che albergano nei cuori. E ci si accorge che la serenità e la pace interiore non si trovano in terre esotiche e romantiche al di là degli oceani. Il contatto con il creato può infatti essere coinvolgente e affascinante anche nel piccolo e noioso mondo in cui viviamo quotidianamente. Rosa Luxemburg, nelle pagine del suo diario di carcerata, raccontava che viveva una vita interiore così esuberante che le permetteva, pur nella sua spoglia prigione, di notare e gioire di così tante cose, di godere un contatto così intenso con la natura al di là delle sbarre della finestrella, come forse non hanno sperimentato tanti fanatici del turismo esotico, alla ricerca di mete sempre più lontane e stravaganti. Siano Capo Verde, il Vietnam, o la Patagonia…

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