Soffiando nel vento
Sono stato al Gerde’s Folk City. Non potevo mancare. Parecchi anni fa, un pomeriggio di primavera, il piccolo locale del Village di New York era deserto. Me ne stavo seduto a un tavolo in penombra, cercando d’immaginare l’elettrizzante atmosfera di quella sera del 16 aprile 1962, quando Pete Seeger intonò per la prima volta Blowin’ in the Wind, Bob Dylan, il suo autore – che come disse «l’aveva composta in dieci minuti» – stava seduto in disparte, trepidante, per cogliere la reazione della gente. Lui ci credeva in quella canzone, per questo aveva voluto che la cantasse Seeger, ben più celebre di lui.
Pete Seeger non fu generoso con quella ballata: «È troppo facile – sentenziò –. Non avrà successo». Predizione sbagliata, e di grosso. Blowin’ in the Wind divenne l’inno d’una generazione di giovani americani, stanchi della guerra del Vietnam. Fece il giro del mondo, diventando inno del pacifismo internazionale, delle speranze utopiche dei figli dei fiori.
E io intanto me ne stavo lì, seduto al tavolino, quando un cameriere mi porta un boccale di birra che non ho ordinato. «L’ha ordinata per voi quello là», disse indicandomi un tipo con i capelli raccolti in una lunga coda di cavallo. In effetti eravamo in due in quel locale ormai disertato dalla gente. Gli feci cenno di avvicinarsi. Si sedette accanto a me. Disse: «Mi fa piacere che qualcuno venga ancora qui. Questo per me è un tempio. Mi siedo qui con devozione».
Parlammo. Lui, ingegnere informatico del Minnesota, lo stesso Stato in cui è nato Dylan. Mi disse che ogni volta che passava da New York si fermava lì, ad assaporare in silenzio quel luogo, allora di proprietà d’un italiano di Cosenza, Michele Porco, Mike Porco, immigrato negli anni Trenta. Di giorno si lavorava bene. Ma la sera era un mortorio. Gli venne in mente di far suonare un po’ di musica. Qualcuno gli suggerì: «Perché non provi col folk?». Mike non sapeva neppure cosa fosse il folk, era pure sordo da un orecchio, ma aveva il senso degli affari. Ci provò. C’azzeccò. Lì si esibiranno Joan Baez, Jimi Hendrix, i Mamas and Papas, Paul Simon e una moltitudine d’altri.
Nel 1961 arrivò un giovane ebreo da un cittadina spersa nelle pianure del Minnesota. Aveva la chitarra e l’armonica a bocca, cantava con voce nasale un po’ sgradevole. Si chiamava Robert Allen Zimmerman, nome d’arte Bob Dylan, in onore al poeta gallese Dylan Thomas.
Aveva voglia di sfondare. Sapeva d’essere dotato della capacità di magnetizzare la gente con la melodia delle sue roche litanie musicali: un misto fra poesie surrealistiche, visioni apocalittiche, profumi selvaggi dei pionieri delle frontiere del west, blues cantati in modo metallico, non come li cantano i neri.
Michael Porco lo scritturò per due settimane. La prima fu l’11 aprile: il successo immediato. Nel giro di pochi giorni venivano da ogni parte ad ammassarsi tra le strette pareti del Gerde’s per ascoltare le canzoni di quel ragazzo pallido e determinato.
Poi, una settimana dopo, Dylan tirò fuori quelle parole accompagnate con un giro d’accordi dei più banali: «How many roads must a man walk down/ before you can call him a man?…/ The answer, my friend,/ is blowin' in the wind – Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?… La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento».
Fa il giro dei locali, quella canzone, col passaparola esce nelle strade del Greenwich Village. Poi, l’anno dopo, nel 1963, viene incisa. E nella versione del trio Peter Paul and Mary ottiene un successo enorme.
Verrà cantata da Dylan, Joan Baez e tanti altri, diverrà bandiera di manifestazioni contro la guerra, accompagnerà comizi e cortei. Verrà cantata nelle strade delle città di tutto il mondo, nei tunnel dei metrò, sui gradini delle piazze, nelle serate fra amici. Non è musica colta, è semplice, strimpelli d’un menestrello, ma è musica che parla, che si stampa nell’anima, che dà forza e ali.
«Quanti mari deve superare una colomba bianca prima di addormentarsi sulla spiaggia?/ E quanti morti ci dovranno essere affinché si sappia che troppa gente è morta?/ La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento».
È un canto di speranza. Sarà il vento, l’insondabile vento a portare la risposta. E il soffio del vento, anche quando è lieve, si sa… chi può arrestarlo?