Socrate napoletano

Le strade della città partenopea sono “vive” da oltre duemila anni. Vi si possono incontrare Maradona, Nerone & C. E per finire: due chiacchiere in mezzo al traffico con Virgilio
Napoli

Ho appena reso omaggio, nel Duomo di Napoli, alle spoglie di san Gennaro, che non si trovano – come si potrebbe pensare – nella cappella a lui dedicata, questo vertiginoso scrigno barocco dove sono custodite le famose ampolle col suo sangue, bensì nel rinascimentale Succorpo (o cripta), in una banale “pentola” di coccio di età medioevale: quale differenza con gli strepitosi “tesori” del maggior patrono napoletano, ora in mostra a Roma a Palazzo Sciarra! Tesori di argento dorato e pietre preziose, per la prima volta in trasferta dal bellissimo Museo diocesano adiacente al Duomo stesso.

Ma c’è – sicuramente meno noto al visitatore occasionale – un altro “tesoro” inglobato in questa maestosa fabbrica di origine angioina, ed è il battistero di San Giovanni in Fonte, costruzione di epoca costantiniana che conserva raffinatissimi brani di mosaico per nulla inferiori a quelli di Ravenna. Assieme alla basilica di Santa Restituta del IV secolo, facente parte anch’essa del Duomo, alle celebri catacombe di San Gennaro e ad un paio di altre minori, distribuite tra la collina di Capodimonte e il quartiere Sanità, questo luogo di “nascita” alla vita in Cristo è tra le superstiti e più preziose testimonianze della Napoli paleocristiana.

Uscito dal Duomo, mi dirigo senz’altro verso Spaccanapoli, nel cuore antico della città: un lungo e stretto rettilineo che – come dice il nome – sembra spaccarla da ovest ed est. E qui il rammarico che Napoli non può vantare cospicui resti monumentali del suo più remoto passato svanisce sotto l’impulso di un’altra emozione, che ritorna ogni volta che percorro questi vicoli ammuffiti e dal selciato viscido, queste strade formicolanti di umanità – e tanto più in questo periodo prenatalizio –, dove è quasi impossibile una sosta tranquilla per ammirare una facciata, un particolare architettonico. Quasi a dire: il vero spettacolo è un altro.

È il pensiero che da oltre duemila anni queste strade del centro storico non hanno mai conosciuto un momento di requie, incanalando uomini, bestie e mezzi di trasporto. Esse, infatti, riproducono in gran parte il reticolo stradale della polis antica con i suoi decumani e cardines incrociantisi ad angolo retto. Sennonché in queste vie un tempo fiancheggiate da costruzioni poco elevate ora svettano palazzi di sei, sette, otto piani. La Napoli durazzesca, sveva, angioina e aragonese, succeduta a quella greco-romana, si è assurdamente sviluppata in altezza, sotto l’assillo della mancanza di spazio, per l’intenso incremento demografico. E luce, aria, mare si sono allontanati inesorabilmente dal suo nucleo: per tanta povera gente confinata nei “bassi” e nei vicoli, umidità e penombra che solo l’esuberanza e la pazienza di questo popolo può far sopportare.

Distrutte così le antiche costruzioni o inglobate negli edifici posteriori, nei monasteri, di Neapolis rimangono le strade, gli spazi destinati all’incontro, allo scambio. Non un guscio vuoto dunque, ma il perenne pulsare della vita nell’intrico di vene e di arterie di un corpo vivente. Ecco la singolarità della Napoli antica, la sua atmosfera che nessun parco archeologico al mondo può eguagliare.

Qui non è difficile immaginare la vita di un tempo, specie se ci si cala nel sottosuolo della basilica di San Lorenzo, tra i resti dell’antico macellum: esempio unico – questo mercato datato dal I al V secolo d. C. che comprende una strada lastricata, un criptoportico e botteghe – di tutte le stratificazioni succedutesi nei secoli. In fondo, l’uomo è rimasto quello di sempre, e certi suoi atteggiamenti e abitudini non sono poi tanto diversi da quelli di un passato anche assai remoto, come si scopre visitando le città sepolte dal Vesuvio. Nei negozi, attorno alle bancarelle, i gesti, le contrattazioni sono quelli di sempre; e c’è lo stesso clamore che si levava sotto i portici dell’agorà. Ci sono ancore la castagne cotte al forno in quel modo speciale che Marziale asseriva essere stato inventato appunto a Napoli; e c’è il venditore di “franfellicchi” che, manipolando morbide e appiccicose matasse di zucchero, ne ricava chicche da succhiare, ignaro emulo del pastillarius che veniva preso d’assalto dai ragazzini sbatacchianti tavolette e calami all’uscita dalla schola. Certo, tra i più forti e acri sentori del mercato sarà più difficile ritrovare il profumo del rinomatissimo hedrycum per il quale Napoli rivaleggiava perfino con quel paradiso dei profumieri che era Capua.

Un ritratto di Maradona con una scritta inneggiante al campione d’altri tempi, piazzato a mo’ di edicola votiva nei pressi della statua del Nilo, ricorda il calcio, emblema di quella passione sportiva che arde come un fuoco sacro nel cuore dei napoletani fin dall’epoca della colonia greco-romana. Lo sport, infatti, era in massima considerazione a Napoli, che vantava un ginnasio e uno stadio famosi; mentre, si noti, mancava di un anfiteatro: segno che i ludi cruenti introdotti dai romani non ebbero qui mai molta fortuna.

I suoi Sebastà quinquennali, equiparati ai giochi olimpici, attiravano concorrenti da tutta l’area del Mediterraneo e da ogni parte d’Italia: lo documentano anche le iscrizioni onorarie di atleti col loro curriculum sportivo ritrovate di recente negli scavi per la metropolitana a piazza Nicola Amore. Solo che in questi giochi era stato introdotto un elemento di novità: una gara musicale, dato che la passione per il canto i napoletani ce l’avevano nel sangue. Immaginarsi dunque con quale gioia dovettero sorbirsi i miagolii di Nerone allorché, non contentandosi di dare audizioni private e di esibirsi di fronte a quegli zoticoni di romani, a più riprese l’imperatore volle cimentarsi nel teatro di questa che era la più greca e colta città d’Italia. Qui si proponeva di raccogliere i primi allori, in attesa di raccoglierne di maggiori nella tournée che meditava di intraprendere in Grecia. Ma la verità è che voleva saggiare il terreno, temendo l’insuccesso in quella “piazza” ellenica così esigente in fatto di vera arte. Comunque Nerone gli applausi dai napoletani se li ebbe, e sinceri, quella volta che, dando spettacolo nel teatro partenopeo, pur tra scosse di terremoto terminò impavido il suo pezzo. E fu dunque omaggio al sangue freddo più che al talento.

Sono tornato in via Anticaglia, scavalcata da due enormi archi di laterizio: è quanto rimane visibile delle strutture pertinenti al teatro di Nerone. Oggi essa risuona dei rock nostrani alla Pino Daniele che ritmano lo sfaccendare di qualche massaia dai piani superiori del “teatro”. Niente più Nerone, né applausi sentiti o di circostanza, né ressa di folla attorno a un flautista greco che dava tanto fastidio a Seneca quando, in visita a Napoli, passava di qui per andare ad ascoltare il filosofo stoico Metronatte. E gli agoni musicali? Emigrati nelle varie competizioni canore di qualche tv locale.

Sono ora diretto al Parco virgiliano, quartiere Posillipo, al sepolcro nel quale la tradizione colta e umanistica ha voluto individuare la tomba del grande Mantovano che, avendo scelto Napoli come sua seconda patria, vi compose le Georgiche e nei luoghi mitici dei dintorni trovò l’ispirazione per portare a compimento l’Eneide. Ma ho l’impressione che, nel frangente in cui mi trovo, Virgilio aspetterà un pezzo. Il bus sul quale sono salito è infatti bloccato da dieci minuti nella Palude Stigia di via Medina e non c’è verso che si sposti; un ingorgo “a croce uncinata”, direbbe Bellavista.

«È una città invivibile!», si leva una voce dal groviglio di membra autotrasportate. Seguono altre voci arrabbiate ed altre più concilianti, s’incrociano dialoghi, ci si informa della salute del “nennillo” e delle offerte al supermarket, e via dicendo. Per ingannare anch’io l’attesa, non sapendo con chi prendermela, me la prendo con Virgilio, sì, proprio con lui: «Scusi la sincerità, ma mi viene il sospetto che Napoli non sia mai stata quella “dolce Partenope” che la nutriva come una balia. Neanche ai tempi dei demarchi e degli arconti, come lei vorrebbe farmi credere».

«Allora le citerò Cicerone – mi sento rispondere –: spero che non voglia mettere in dubbio la sua autorità. Allorché assunse le difese del nipote di Silla, impelagato – come si diceva – in una congiura, sa quale argomento decisivo tirò fuori per stornare ogni sospetto? Il fatto che in quel tempo il giovanotto si trovava a Napoli, la città più aliena da violenze e ribellioni: “La natura stessa di quella città – scrisse il sommo oratore, non è tanto fatta per accendere l’animo dai faziosi, quanto piuttosto per smorzare ed acquietare ogni passione politica…”». «Certo che con tutti i guai subìti da allora, i napoletani non hanno mai smentito questa che lei ritiene una buona qualità», faccio io.

A questo punto dal groviglio umano si leva un’altra voce, irosa: «Guardate un po’ che bolgia, che inferno! E non solo non funzionano i trasporti: non funzionano la nettezza urbana, le poste, l’amministrazione comunale…». «Signo’, non fatevi il sangue amaro – interviene un altro –, prendetevela con un po’ di filosofia». «Don Virgì – riprendo io –, come la mettiamo con ‘sta filosofia? Si ridurrebbe tutta qui, a questo buon senso spicciolo, la sapienza di una città che vanta origini greche? Non le sembra di immeschinire così tutta l’alta filosofia dell’Ellade?». «E perché mai? In fondo, se la filosofia non m’insegna a vivere, a risolvere anche i piccoli problemi quotidiani, ha un bell’essere alta. Questo i napoletani l’hanno capito: perciò, dove altri non riuscirebbero a vivere, loro ci riescono, continuando ad essere un serbatoio di umanità, di poesia. Mi creda: Socrate stesso non avrebbe disdegnato di prendere la cittadinanza onoraria napoletana. Anzi, sa cosa le dico? In ogni napoletano c’è un po’ di Socrate».

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