Smartworking, flessibilità e diritti del lavoro
Con il nuovo Dpcm del 18 ottobre si incentiva il ricorso allo smartworking. Almeno il 70-75% per il pubblico impiego e una forte raccomandazione per quello privato. Non si parla ancora do un nuovo lockdown ha ribadito Giuseppe Conte, ma il timore dell’espansione del contagio da Coronavirus impone un ricorso intensivo al lavoro da remoto. Cioè da casa o comunque da luoghi diversi, quando possibile, da uffici e officine. Come evidenziato da Giampietro Parolin può essere uno strumento di liberazione nel lavoro senza, tuttavia, poter nascondere gli eventuali effetti negativi. Secondo l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ad esempio, lo smartworking può diventare «una nuova forma di flessibilità a basso costo». Abbiamo ascoltato in materia il parere di Giancarlo Pelucchi, responsabile nazionale della formazione sindacale nella Cgil.
Quali sono le esigenze del sindacato a proposito della regolamentazione dello smartworking? Cosa comporta nell’organizzazione del lavoro?
Smartworking e telelavoro sono materie ricorrenti e ordinarie della contrattazione sindacale. Dopo i primi casi, negli anni ‘80, si è diffusa una maggior esperienza negoziale, cresciuta assieme a nuove norme europee e nazionali. Tanti accordi: aziendali, di gruppo e di categoria. Ma lo tsunami della chiusura totale ha travolto pratiche, relazioni ed esperienze contrattuali, anche perché la linea confindustriale – sposata dal Governo – di derogare all’obbligo di contrattare tempi e modi di quel lavoro per via dell’emergenza sanitaria, è stato interpretato come un “liberi tutti”.
E cosa è accaduto di fatto?
Nel giro di pochi giorni milioni di lavoratori e lavoratrici sono stati obbligati a restare a casa e lavorare come potevano, aumentando il digital divide e generando pratiche di aggiustamento individuali incontrollate. Né smart nè “tele”: un italianissimo lavoro da casa abborracciato.
Con quali conseguenze concrete?
In assenza di contrattazione ognuno ha usato quel che aveva sottomano: PC, portatili, tablet, telefonini, spesso da condividere con figli in età scolare e magari un’altra persona che lavora in famiglia. Collegamenti e reti non sicure, non controllate, in assenza di protocolli di sicurezza e privacy adeguate. Orari improbabili, mischiati alla normale attività di vita e relazione familiare. Assenza di procedure e formazione adeguate al lavoro da casa. Tutte materie regolate normalmente tra le parti con la contrattazione che è stata sospesa durante la pandemia.
La questione si ripropone adesso con un maggior ricorso dello smartworking…
È così. Sbaglia chi immaginava di trovarsi davanti ad una parentesi in attesa della fine dell’emergenza sanitaria. Non torneremo come prima. Queste seppur contraddittorie esperienze stanno già mutando pratiche e relazioni tra lavoratori, lavoratrici e imprese, sperimentando nuove forme di partecipazione e conflitto nuove. Soprattutto per le donne questa fase ha coinciso con un carico supplementare per la cura dei figli o dei genitori che ha sconvolto gli equilibri e le complesse strategie di sopravvivenza familiare. Peraltro non è tuto riconducibile solo al tema della conciliazione (come se fosse – nel 2020 – ancora solo un problema delle mamme e non anche dei papà che lavorano).
E cosa dovrebbe fare il sindacato in questa nuova organizzazione del Lavoro.
Per noi resta cruciale tornare a discutere e contrattare orari, sicurezza, privacy, strumenti, reti e formazione. Per ricordare che anche quel lavoro porta con se’ dei diritti individuali e collettivi, compresi quelli sindacali (bacheche, assemblee virtuali).
Questa ibrida esperienza di massa sta cambiando equilibri e pratiche nelle imprese. È anche un forte stimolo per il cambiamento del sindacato.