Smart working, un grande esperimento sociale

L’irrompere della pandemia ha reso possibile, per parecchie attività, lo smart working e altre forme di lavoro a distanza. Un cambiamento radicale dei tempi di vita e dell’organizzazione sociale che suscita diverse e contrastanti letture
Smart Working Foto di Kevin Phillips da Pixabay

Non tutti i lavori sono digitalizzabili, ma per quelli che lo sono il lockdown ha consentito un grande esperimento sociale.

Molti lavoratori infatti, dai top manager agli operatori della contabilità di organizzazioni pubbliche e private, per alcune settimane hanno lavorato da casa: ciò significa che si può fare!

Si tratta di capire, come evidenziato anche da Vittorio Pelligra sul Sole24ore, se le organizzazioni siano pronte a questo passo, dal momento che finora le regole – dei contratti di lavoro e quelle interne – non contemplavano o impedivano questa prospettiva, sia pure in presenza di tecnologie adeguate disponibili da molti anni.

D’altra parte i vantaggi appaiono evidenti: minore tempo per il trasporto, più tempo libero per il lavoratore, maggiore autonomia nella gestione del lavoro e, talora, in presenza di tecnologie e formazione adeguata, miglioramenti in termini di produttività.

Sembra la quadratura del cerchio per la conciliazione vita-lavoro, di cui si parla da molti anni soprattutto per le lavoratrici, e la possibilità di un modello di sviluppo più sostenibile.

Certo c’è anche un tema politico di accesso perché non tutti i luoghi del Paese hanno la banda larga e non tutte le persone sono dotate di strumenti e competenze per giocare la partita digitale.

In ogni caso, per molti la forma-lavoro e di conseguenza la forma-vita si sono modificate profondamente, radicalmente e repentinamente.

Questo cambio di scenario, fatto di un reale che è allo stesso tempo fisico e virtuale, per diverse ragioni, non è gradito da tutti.

Da alcuni perché il lavoro digitale porta inevitabilmente a una ri-mappatura del potere nei luoghi di lavoro: il lavoro diventa più orizzontale e quindi disgregante le tradizionali forme gerarchiche, con relativi riti e status consolidati, se non sono supportati da relativa ed effettiva responsabilità.

Il lavoro digitale, prima che sul controllo – basato sulla presenza fisica certificata dalla timbratura del cartellino – è fondato sulla fiducia e implica la stipula di nuovi patti lavorativi centrati sugli obiettivi, sulle scadenze e sulle modalità di condivisione dei processi, dove l’informazione distribuita a tutti ne è il cardine.

In questo senso la trasformazione digitale consente un cambio profondo di paradigma, da modelli centrati sul controllo a modelli centrati sull’autonomia.

Su questo tema quei datori di lavoro, lavoratori e le loro rappresentanze che sono abituati alla rigidità di orari e mansionari mostrano comprensibili resistenze culturali.

Per alcuni tornare a quella commistione e unicum fra vita e lavoro, che era tipica delle civiltà contadine, è disorientante e spiazzante, dopo decenni di netta demarcazione fra tempi di vita e tempi di lavoro.

C’è poi un tema che riguarda il ruolo della fisicità, e della sua scarsità, nelle relazioni di lavoro e di vita, ma anche i limiti temporali della relazioni virtuali, per cui ormai sappiamo che si può lavorare insieme fisicamente per 8 ore ma è molto difficile sostenere un incontro virtuale della stessa durata.

La fisicità poi ha un suo valore che non va trascurato e anzi va preservato. Non è comparabile un incontro fisico con un incontro virtuale: il primo è largamente più ricco!

Si tratta allora di investire sulla fisicità quando questa offre un vero valore aggiunto, per esempio nei processi decisionali delicati, nelle risoluzione di conflitti o nelle riunioni di progetto, che chiedono spazi e tempi di prossimità emotiva e non solo fisica, e può offrire creatività inattesa oltre a facilitare le successive interazioni virtuali.

C’è quindi da modulare le giuste dosi di fisicità e virtualità. Dosi che possono essere diverse per ciascuno e quindi, in un gioco di coordinamento sociale, ci vuole la capacità di comporre le diverse esigenze all’interno di un quadro di obiettivi e scadenze condivisi e da rispettare.

Il tema delle dosi va poi modulato anche sui settori e sui servizi, come si è sperimentato per la didattica a distanza. Si parla di “blended education” dove l’ambiente di apprendimento è un misto di contatto fisico e virtuale, e cerca di massimizzare in modo virtuoso le due componenti.

Il tema è articolato e complesso. Sembra, tuttavia, arrivato il tempo di lasciarci alle spalle, alla luce dell’esperienza fatta nella pandemia, gli approcci tayloristici che hanno permeato, condizionato e talora imbrigliato l’iniziativa personale, per ripensare al lavoro e, magari, per ripensare alla vita che non è più la stessa.

Forse, potendo lavorare dal proprio villaggio in campagna, è pure migliorata. Paradossi di questo tempo pandemico.

 

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