Smantellato il Gran Ghetto
Hanno vissuto per venti lunghi anni nella più grande favelas d’Europa. Sino a mercoledì 1 marzo, cinque giorni fa, quando la Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari ha deciso che era il caso di mettere la parola fine alla vergogna dello sfruttamento bracciantile dei migranti e, coadiuvata da cento uomini coordinati dalla Questura di Foggia, ha smantellato il famigerato Gran Ghetto.
“Riduzione in schiavitù” l’accusa. Siamo a San Severo, provincia di Foggia. È lì che donne e uomini, proveniente in larga parte dall’Africa subsahariana, hanno perso la dignità, diventando numeri nelle mani dei caporali e dei capineri, la sola forma di intermediazione agricola ormai vigente nelle campagne della Capitanata: è il business del pomodoro, dell’oro rosso, che ha attirato in quelle baracche migliaia di essere umani. Fino a tremila nei mesi estivi.
Per avere una idea sommaria della baraccopoli di cui stiamo parlando riportiamo una frase del sociologo barese Leonardo Palmisano in Ghetto Italia: «Finché non s’è messo piede nel Gran Ghetto – scriveva –, non si può avere idea di cosa sia un inferno molto ben organizzato». Un piccola città nel degrado, fatta di legno, lamiere e plastica dove tutto si pagava e tutto era in vendita, a partire dai corpi. Lavoro di braccia sfruttato nei campi, sesso a pagamento. Morti misteriose.
Stare al ghetto non era solo vivere ai margini di tutto, esclusi da tutto; era anche (e soprattutto) stare “sotto”. Schiacciati dai caporali, dalla criminalità, dal datore di lavoro; e sopra ancora, dalla “mano invisibile del mercato”, dalle multinazionali dell’agro-alimentare che fanno il bello e cattivo tempo, dalla politica collusa, dalla legge che si gira dall’altra parte. Venti lunghi anni di vergogna, complice una politica debole ed incapace. Ed una opinione pubblica silente.
Mercoledì 1^ marzo la svolta: Regione Puglia e DIA decidono di dire basta. Il momento è propizio: nei periodi di non raccolta il Gran Ghetto conta poche decine di stanziali. Le strutture per accogliere meno di cento migranti ci sono. Si tenta la via diplomatica, ma fallisce. Alcuni salgono volontariamente sui bus messi a disposizione dalla Regione. Altri resistono.
I capineri chiamano a raccolta decine di migranti residenti altrove: il Gran Ghetto si riempie, sono in 600 ora a sfidare lo Stato. Scendono in piazza, chiedono un incontro con la Prefettura: non c’è sufficiente posto per tutti nei centri di accoglienza individuati, la tesi portata al tavolo degli Interni, bisogna temporeggiare. Il Prefetto risponde picche. Le ruspe sono pronte ad entrare in azione l’indomani. Nella notte un enorme incendio avvolge la baraccopoli, è il settimo dal 2012. Perdono la vita due migranti maliani: Mamadou Konate, 31 anni, e Nouhou Doumbia, 36 anni. La Procura indaga, non esclude il dolo. «Se arrivano le ruspe, qui brucia tutto e ci scappano anche i morti», avevano minacciato alcuni migranti alla vigilia dell’atto di forza. Previsione misteriosamente concretizzatasi.
La sera di giovedì 2 marzo è finita. Le fiamme salvano alcuni foglietti: pezzi di libro mastro sui cui i capineri appuntavano debiti e crediti dei braccianti. 50 euro per un materasso nel Gran Ghetto, 5 euro per il trasporto nei campi, 50 centesimi per ricaricare il cellulare, 1,50 euro per ogni cassone di pomodoro raccolto. A conti fatti, nelle tasche dei lavoratori stranieri restava poco e niente. «Peggio degli slum di Nairobi», l’ha descritta l’eurodeputata Eleonora Forenza.
È finita. Nei centri di accoglienza i migranti vagano spaesati, ma puliti e rifocillati. “Lavoro”, il loro unico pensiero. Per politica, istituzioni, sindacati, aziende si apre ora la sfida più grande: riscrivere il patto etico del lavoro nei campi. È questa la sola strada verso la dignità e la libertà dell’essere umano in una provincia, una regione, un Paese che voglia definirsi civile.