Slovacchia a cuore aperto

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Nei primi di febbraio, da Kosice viaggiavo verso Bratislava, attraversando da est a ovest tutto il paese. Avevo davanti ai miei occhi le immagini dei funerali di un amico svoltisi il giorno precedente, che mi portavano a inevitabili considerazioni. Mi sembrava infatti di avere partecipato ad un evento sociale. In un villaggio è molto facile rendersi conto di quale potenza ci sia nella tradizione al punto da far capire il perché appaiano appiccicate sia le ideologie, sia alcune scelte politiche che non sanno misurare il valore della persona. L’estremo saluto ad un compaesano, come un matrimonio, come un’ordinazione sacerdotale, sono eventi della comunità che coinvolgono automaticamente tutti, indipendentemente dal colore che possa aver preso la fede e dalla posizione sociale raggiunta. Ne parlo in treno con i compagni di viaggio, rispettosissimi delle mie esclamazioni davanti ad un paesaggio sorprendentemente suggestivo, orgogliosi quasi di mostrare ad un italiano monti e valli che appartengono loro, combinazioni della bellezza che dipingono, con colori irripetibili, l’immagine della Slovacchia il cui clima continentale e le cui acque curative offrono la possibilità di ricrearsi sia d’estate che d’inverno. Un giovane imprenditore edile, Frantisek, mi conferma che anche durante il periodo degli studi fuori dal villaggio natale, il ritorno a casa era come ritrovare il proprio equilibrio, come rimettere a posto tutte le valenze contrariamente all’idea che la città, con i suoi mille svaghi e mille possibilità di rapporti, sia più aperta e universale. Evidentemente per noi slovacchi le chiavi all’universalità ce le offrono i rapporti umani, nella scala completa delle età, non tanto quei luoghi modello che i mass media inutilmente vorrebbero farti sentire tuoi. Penso che sia stato proprio la forza della tradizione a rendere innocua l’azione di un’idea socialista che qui non ha trovato il suo vero humus proprio per la sua velenosa proprietà di immettere il sospetto e la delazione. Quando poi si parla di folclore è quasi un affronto per noi, è come mettere in vetrina la vita, come far recitare ad una madre la parte della madre, con l’aggiunta di un cosmetico che la fa scivolare sul grottesco. È troppo forte la vita per mettervi sopra qualcosa di non connaturale. Chiedo cosa ne pensi dell’ingresso in Europa. Se pone questa domanda, troverà tante risposte. Lo slovacco cerca sempre di capire cosa l’altro vuole sentire. Dal modo in cui lei pone la domanda, l’altro risponderà. Da parte mia, per il lavoro che faccio e per la formazione avuta, penso che entrare in Europa sia lo sbocco naturale di una crescita collettiva. Ma un prezzo c’è da pagare. Non è legato all’ingresso in Europa, quanto all’evoluzione stessa delle culture. Il danno di un’economia che è dio di sé stessa ha rinforzato, ancor più dopo la caduta del comunismo, quel sospetto che ingenera un atteggiamento guardingo e il non pieno coinvolgimento. Molti si rifugiano nel privato per salvare la dignità della vita. Ma questo è contrario al nostro modo di essere. Avrà sicuramente visto, ai funerali, con quanta generosità ognuno portava almeno un fiore. Superfluo? Non necessario? Si pensi quello che si vuole, ma fa parte del nostro modo d’essere poter fare un dono agli altri. L’accoglienza di un ospite nella stanza più calda, con le cose migliori, con i cibi più buoni non è ostentazione di un benessere economico, che talvolta non c’è, ma l’apertura del cuore. Se questo valore viene oscurato da forze coercitive, il futuro è veramente compromesso. La signora Elena, insegnante di ma- tematica in una scuola media al confine dell’Ucraina, guardando fuori dal finestrino del treno, dice che la neve di quest’anno le ricorda la sua infanzia. Il paesaggio, quando ci avviciniamo ai monti Tatra, è fiabesco. Il cielo terso del mattino colora di rosa pastello le case sotto la neve; perfino i grigi caseggiati prefabbricati, identici a Praga come a Budapest o Varsavia, ne vengono ammorbiditi e ingentiliti. La signora, che aveva seguito in silenzio la chiacchierata, racconta di queste terre, del grande flusso turistico anche straniero, di certi paesini che hanno conservato intatto il candore di costumi; e mi indica quali posti sarebbero da visitare soprattutto per le feste pasquali, quando, con la natura, si risvegliano le tradizioni e si tirano fuori dalle casse i vestiti ricamati a mano che caratterizzano e accompagnano, nella loro insuperabile arte, i ritmi della vita. Sì perché tradizione vuol dire identità nazionale, vuol dire risalire alle proprie antichissime origini slave. Interviene un giovane, Andrej, che torna dalle vacanze sulla neve. Parla dei suoi studi nella capitale e della sua famiglia metà ungherese e metà slovacca. I miei genitori guardano con timore al futuro. Quest’anno i prezzi sono aumentati e ciò si aggiunge all’aumento dello scorso anno, per cui anche l’entrata in Europa sembra che li costringerà ad una progressiva povertà e a rimpianti di tempi migliori. Io vedo le cose diversamente. Per esempio, penso che sarà più semplice studiare altrove, avere più facilità di scambi con altri popoli e culture. Anche se gli stati d’Europa sono molto vicini e affini, siamo lontani come pensiero. Sentiamo che ormai non ci sono frontiere ideologiche o quelle peggiori del pregiudizio nazionalista. Ci accorgiamo di essere un’altra ge- nerazione e l’Europa unita è il vestito giusto per la nostra generazione piena di speranza in un mondo migliore di quello dei nostri genitori. Al centro della Slovacchia, verso Banskà Bystrica, è facile ripensare al recente viaggio del papa. A questo punto si aggiunge al nostro colloquio un anziano signore, rimasto fin’allora in rispettoso silenzio. Rivolto a me, chiede se conosco la vicenda della statua della Madonna di Banskà Bystrica. Al mio silenzio interrogativo comincia a raccontarmi una storia per molti versi emblematica. Nella piazza di Banskà Bystrica, dove il papa ha celebrato messa si alza una colonna che sostiene una statua di Maria. È il segno di gratitudine della popolazione per la scampata peste del XVIII secolo. Nel 1964, per una visita di Nikita Kruscev in quella città che stava assurgendo a modello del socialismo realizzato, il simbolo religioso risultava un inciampo storico, soprattutto perché al centro della piazza il segretario del partito comunista centrale avrebbe dovuto tenere la sua predica. La statua allora è stata trasferita in una stradina vicina, dove è rimasta nascosta per trent’anni. Oggi Maria, tornata al suo posto, parla più forte di una predica. Gli slovacchi sono così. Parlano senza parlare. Forse per questo si dice che è un popolo mariano. Torna a parlare Frantisek: Quella del papa è stata una visita commovente. Per le sue condizioni di salute, non è riuscito a parlare molto, ma il suo silenzio gridava. E questo l’abbiamo vissuto tutti. Ha notato come il tono di certi rotocalchi è cambiato completamente dopo il passaggio del papa? Sì, lui ha ragione nel dire che noi abbiamo qualcosa da portare all’Europa e forse il suo incoraggiamento è la spinta più forte e autorevole e ci lancia fiduciosi nella nuova avventura. I discorsi si fanno sempre più caldi e aperti. Si ride dei nomi delle vie e delle piazze o delle città che avevano dovuto subire il loro turno di gloria e polvere. Più grottesco è quello della città Ziar nad Hronom (Splendore sul [fiume] Hron) che una volta era Santa Croce sul Hron. La signora Elena, corregge furbamente la risata eclatante di Andrej, dicendo che secondo lei i significati dei nomi non sono stati alterati ma precisati, completati. Per un paese dichiaratamente cattolico, la croce è veramente lo splendore del nostro cammino!. Quando arriviamo a Bratislava, mescolati ai rumori di una città dai vezzi di una nobile signora austroungarica, vedo aggirarsi nella stazione principale gli stessi tipi d’alcolizzati che s’incontrano in ogni stazione europea. Creerebbero delle barriere se non ci fossero persone come Andrej e Frantisek, che improvvisamente mi chiedono di custodire il bagaglio mentre corrono verso un anziano caduto nella neve ormai scura. Sì, qui la carità è l’anima. Non ha barriere, non ha confini. FRA I CARPAZI E IL DANUBIO La Repubblica Slovacca, il cui territorio è prevalentemente montuoso, confina a nord con la Polonia, a nord-ovest con la Repubblica Ceca, a ovest con l’Austria, a sud con l’Ungheria e a est con l’Ucraina e si estende per 49.036 chilometri quadrati. Popolazione 5.379.455 (cens. 2001) prevalentemente rurale. Nella capitale, Bratislava, che dista 50 chilometri da Vienna, si concentra circa mezzo milione di abitanti. Oltre a Kosice, all’estremo punto orientale del paese con 235 mila abitanti, tutte le altre maggiori città non raggiungono i 100 mila. La lingua si differenzia in tutto il territorio con 6-7 sfumature idiomatiche che ne caratterizzano la provenienza. Il 10 per cento della popolazione è costituito da ungheresi. Esigue sono le minoranze di polacchi, ruteni e cechi. Numerosa la presenza zigana con gruppi sinti e rom. Religione in maggioranza cattolica, 73 per cento dei quali il 4 per cento di rito bizantino. I cristiani di altre denominazioni (luterani e calvinisti) sono il 10 per cento. La sua identità nazionale, conservatasi sin dal tempo della Grande Moravia e della dominazione ungherese, soltanto dopo un millennio, nel 1918, dopo la prima guerra mondiale, assieme alla nazione ceca trova il suo spazio come Repubblica Cecoslovacca, dove però, non essendo i dirigenti di cultura slovacca ma boemi, si ingenera un nazionalismo che porterà i più radicali a schierarsi con i nazisti tedeschi, così che nel 1938, con l’occupazione della Boemia da parte della Germania, la Slovacchia autonoma si trova alleata della grande Germania. Le trattative di Yalta, dopo la dolorosa seconda guerra mondiale, riportano boemi e slovacchi a vivere insieme la stagione dell’influenza sovietica che fino al 1989 segna la storia del paese. Dopo la separazione dalla Cechia (1993) e un decennio di tirocinio repubblicano con un parlamento monocamerale, la nazione si avvia all’ingresso in Europa con speranza e timore.

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