Dopo il sisma: “a muntagna” spaventa
È trascorsa una settimana dal sisma che ha ferito il nordest del catanese, in seguito ai movimenti provocati dall’Etna. Attimi indimenticabili, che hanno lasciato diverse famiglie tra i tendoni organizzati: ci eravamo svegliati durante la notte, non per i pasti sovrabbondanti di Natale e Santo Stefano appena trascorsi, che al sud d’Italia appaiono più banchetti da prove epiche d’impresa che mense, ma perché i letti ci scuotevano con veemenza. Pensavamo fosse la solita ‘muntagna’: la nostra signora, l’Etna, usa d’altra parte dare sempre spettacolo tra fuochi pirotecnici, sontuose colate e scosse fisiologiche cui qui tutti siamo abituati. Fin da bambini, abbiamo udito spesso le finestre in vetro vibrare e i lampadari dondolarsi un po’. «Siamo terra ballerina» ci hanno sempre raccontato i nostri nonni…
Stavolta no: stavolta la scossa è stata forte e continuata per decine di secondi. Poco prima, alle 1.09, avevamo assistito più o meno al solito copione, ma ora, un paio d’ore dopo, no: 4.8 di magnitudo si facevano sentire tra lampadari che tremavano, mobili e libri in tumulto e letti significativamente in movimento. Qualcuno era subito uscito di casa, qualcuno la casa se la vedeva crollare attorno in buona parte, qualcuno vedeva crescere crepe tra le mura attorno… Per i nostri paesini etnei della Sicilia Orientale il risveglio era traumatico, anche se non si sono registrati morti né feriti, se non alcune lievi escoriazioni per qualcuno. Noi più giovani non ricordavamo scosse simili: stavolta “a muntagna” ha fatto paura. E danni.
Il movimento vulcanico, spiegano gli esperti, ha come innescato i movimenti della faglia della Sicilia orientale, che hanno avuto seguito anche nelle ultime ore, seppure con minore vigore: i paesini e le frazioni tra Fleri, Pennisi, Pisano, Fiandaca riportano i danni peggiori tra muriccioli caduti, tavoli divelti, crepe inquietanti, cristallerie in frantumi e molteplici chiese storiche che purtroppo portano le maggiori ferite strutturali. La chiesa di Santa Lucia, ad Aci Catena, dove chi vi scrive si trovava con la famiglia riunita da tutta Italia per le feste come consuetudine, è ripetutamente circondata da Vigili del Fuoco e autorità. Il traffico è in tilt più volte al giorno: la croce sul campanile, che riprende esattamente quello del Quirinale come architettura, si è accartocciata, facendo temere danni strutturali sulla sommità che sovrasta la piazzetta, snodo nevralgico per esercenti, pendolari e cittadini, trovandosi tra Acireale e Catania.
Mentre le forze dell’ordine chiudono la piazza per sicurezza, dato che l’interno e il campanile riportano crepe da valutare, anche il resto del circondario delle Aci continua a monitorare i suoi danni, anche se l’epicentro di Viagrande ha messo certamente più a dura prova i paesini alle pendici del nostro vulcano. Sappiamo da sempre che il nostro sciame sismico è imprevedibile: la nostra terra ha 4,5 miliardi di anni e studiare sismologia e vulcanologia è sempre esercizio parzialmente illusorio. Quanto conosciamo della crosta terrestre? Ma soprattutto quanto delle decine di migliaia di chilometri che la separano dal quel centro della terra che tutto muove, rendendoci pedine da spazzare da un momento all’altro?
Pensiamo di non poterci ritenere affatto sereni, neanche mentre le famiglie e le case restano intatte: d’altra parte è solo un caso, provvisorio e insignificante rispetto alle ferite delle comunità circostanti, dove qualcuno ha perso tutto e dove ogni problema non può non ricadere su tutto il circondario. Il pensiero di queste comunità va a chi è costretto a lasciare casa, ma soprattutto a chi teme di vedere passare mesi e mesi per ridicole lungaggini burocratiche. Dopo l’analisi dei danni, la politica dovrà coordinare aspettative, tecniche e speranze, affinché i nostri paesini possano sanare le ferite e ricostruire ancora in meglio. Secondo criteri di prevenzione, sempre colpevolmente ignorata, e bellezza, quello stile tanto salvifico quanto qui spesso troppo mortificato.
Certo qui molti si chiedono come qualche autorevole politico riesca oggi a guardarsi allo specchio dopo avere scritto negli anni “Forza Etna!” contro noi siciliani, chissà poi perché… anche perché molti sarebbero pronti a votare gli stessi protagonisti autori di simili vergogne.
Ma è un pensiero oscuro che poco dura, perché come quella croce di Santa Lucia ad Acicatena potremo essere fiaccati per un momento, ma insieme potremo rialzarci: abbiamo tutto per fare di questa ferita un’occasione di fraternità, come già è accaduto e sta accadendo e come già nel resto d’Italia molti fratelli hanno fatto prima di noi. Perché non esiste serenità o felicità se qualcuno accanto a noi soffre… e non esisterà un buon indotto economico neanche a medio lungo termine se parte dell’indotto resterà ferito.
Potremo farne invece un’occasione di rilancio se in un’ottica di fraternità guarderemo a sicurezza e legalità come ragioni di prevenzione comunitaria e non, come più di qualche volta accade nel nostro sud, come vezzo moralistico. Se guarderemo a bellezza e valorizzazione estetica come ragione di investimento collettivo e duraturo, anziché come filosofia per pochi sognatori. Reagiremo, insieme, se dopo lo sconforto e il dolore impareremo a benedire anche le ferite più dolorose, ricostruendovi la nostra speranza. Perché siamo e saremo sempre provvisori e piccoli, ma unici e irripetibili.