Siriani a Dekouaneh
Tra i profughi siriani. Con alcuni colleghi abbiamo passato un pomeriggio in una delle tante “incrostazioni” o “intromissioni” negli interstizi della città di Beirut che sono i campi profughi diffusi ovunque (solo il 20% di essi vive in campi tradizionali con tende e vialoni, come si vedono alla tv, campi che in ogni caso sono “abusivi”, cioè non riconosciuti dal governo libanese, ma solo tollerati). Piccole convivenze di gente che fugge, cioè un milione di uomini, donne e bambini nel piccolo Paese dei cedri. A Dekouaneh vivono così 30 famiglia siriane dello stesso villaggio di Daraw (pagano 165 dollari al mese per una catapecchia), praticamente nel luogo di lavoro stesso degli uomini, uno spazio in cui si fabbricano foratini di cemento (in origine erano tutti agricoltori). Siamo entrati nelle loro case ordinate anche se poverissime, abbiamo giocato coi bimbi, abbiamo ascoltato dalle loro proprie voci il bisogno di libertà, dignità, lavoro sicuro. Tornerebbero in Siria se potessero, ma oggi non si può più. Oggi aspettano una possibilità qualunque di espatriare.
Questa è la realtà dei rifugiati 2.0, quelli del XXI secolo, immigrazione urbana diffusa. Queste soluzioni paiono peggiori di quelle extraurbane tradizionali, ma c’è meno solitudine ed emarginazione delle soluzioni radicali. Le istituzioni nazionali e internazionali cercano di fare opera di socializzazione, perché i rifugiati siano sempre più autonomi. Le depressioni maschili, però, sono terribili e dilaganti, creando non pochi problemi familiari. Si cerca di lavorare anche sulla scolarizzazione, che si vorrebbe non fosse interrotta, ma che nei fatti per i problemi di lingua e di cultura si ritrova fatalmente rallentata. E poi c’è l’assistenza “demografica”: tirare su quattro figli a casa propria non è come tirare su quattro pargoli in un campo profughi.
Corrono i bimbi a piedi nudi sulla polvere bianca e grigia che invade ogni cosa, ogni interstizio tra le abitazioni: capisco perché le donne siano sempre con scope e scopette in mano, se si abbassa la guardia la nuvola di polvere invade tutto come un fiume impalpabile ma inarrestabile. E le allergie respiratorie dei bambini esplodono. Le condizioni igieniche raggiungono uno standard minimo di tolleranza, ma non sono certo ottimali, né sufficienti per evitare soprattutto d’estate epidemie e disturbi intestinali. Le baracche di mattoni forati di cemento sono state costruite dagli stessi profughi a ridosso del perimetro dello spazio di produzione, e per queste baracche pagano il proprietario del terreno! La grande corte dove si vive e si lavora pare abbastanza ordinata, anche se a ridosso delle catapecchie l’accatastamento di oggetti vari crea una sensazione di precarietà e disordine difficile da accantonare, tanto più che a limitare lo spazio ci sono edifici di 4 o 5 piani che sono anch’essi campi profughi, appena un po’ meno provvisori e in verticale, anche se osservando gli edifici ci si chiede come possano restare in piedi, tante sono le fessure, tanto poca è la perpendicolarità delle strutture, tanto scarnificati paiono i pilastri di cemento (o di sabbia?). Gli uomini producono mattoni che vengono pagati 4 dollari al centinaio, lavorando dalle 7 di mattina alle 13, poi fa troppo caldo. Il reddito ricavato per famiglia raggiunge a fatica i 300 dollari. Senza i pacchi alimentari e l’assistenza sanitaria dell’Unhcr non si riuscirebbe a sopravvivere.
Le due famiglie con le quali mi intrattengo più a lungo – quella di Ahmad Abdallah, con tre figli, e quella di Mahmud Abdallah, con quattro figli nati e uno in arrivo, vorrebbero che le aiutassi a venire in Italia. Scopro che quasi tutte le famiglie del campo hanno lo stesso cognome, si sposano tra cugini per tradizioni locali. Gli uomini almeno una volta al mese tornano in Siria, visto che hanno lasciato parenti, bestiame e cose laggiù. Prima erano tutti agricoltori, cercano di non perdere ogni speranza di ritornare un giorno nel loro villaggio.