Siria, Trump impone il ritiro dei soldati Usa

Un'analisi, dal Medio Oriente, della decisione del presidente statunitense di far tornare a casa i soldati a stelle e strisce. Restano molti dubbi su questa scelta, sia sulle motivazioni che sulle modalità di disimpegno. Si farà spazio a turchi e russi? Arriveranno i sauditi? I fatti diranno se l’intenzione sarà seguita da azioni concrete o se si tratta dell’ennesimo bluff della Casa Bianca.

«La lotta all’Isis non è finita in Siria, ma siamo sicuri che il ritiro dei soldati Usa dal Nord-Est sia il segno di una nuova fase, l’inizio della fine della guerra»: è il vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo, che commenta così il tweet del presidente statunitense Donald Trump, che il 19 dicembre scorso annunciava il ritiro di tutti i 2 mila soldati Usa dalla Siria entro gennaio 2019.

Monsignor Audo non è famoso per mandare a dire quello che pensa, e anche stavolta non si è smentito. Trump aveva scritto infatti: «Abbiamo sconfitto l’Isis, per la mia presidenza l’unica ragione per essere lì». Nell’intervista telefonica pubblicata su VaticanNews del 20 dicembre, monsignor Audo aggiunge – fra il resto – che la cosa più importante adesso è «smettere di vendere armi al Daesh, una creazione artificiale voluta nella regione solo per scopi politici».

Il tweet di Trump non è in realtà una novità: l’intenzione di ritirare i soldati Usa dalla Siria era stata annunciata più volte dal presidente statunitense fin dalla campagna elettorale e più volte ripresa negli ultimi due anni, ma mai attuata, tanto che molti ancora non credono che lo farà davvero. Di nuovo c’è la reazione indignata dei “falchi” di Washington, tanto che il ministro della Difesa e capo del Pentagono, il mitico generale dei marines James Mattis (considerato una persona capace e autorevole sia dai repubblicani che dai democratici), per protesta ha immediatamente rassegnato le proprie dimissioni, seguito a ruota da Brett McGurk, l’inviato del governo statunitense per la lotta allo Stato islamico.

Trump ha subito disposto l’immediata destituzione di Mattis (la scadenza del mandato di un ministro della Difesa prevede due mesi per le consegne al successore) e la nomina al suo posto dell’attuale numero due del Pentagono, Patrick Shanahan. Com’è noto, il governo Trump in questi due anni ha perso per dimissioni decine di ministri e collaboratori, come il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e il capo-staff John Kelly, ma anche il ministro della Giustizia Sessions e l’ambasciatrice all’Onu Nikky Haley, per non citare che alcuni nomi.

A rincarare la dose, lo stesso giorno delle dimissioni di Mattis, Trump ha deciso di ritirare metà (7 mila soldati) del contingente militare statunitense in Afghanistan, e questo senza consultare nessuno, neppure il governo afghano, sebbene in questo momento i talebani siano in fase espansiva.

«militari-turchi-invadono-nuovi-territori-in-siria-foto-apPerché?», si chiedono in molti. Anche il Congresso statunitense ha chiesto al presidente un chiarimento, soprattutto sulla strategia complessiva che ci sarebbe dietro queste decisioni, che rappresentano un unicum nella politica americana di sempre. Secondo Gianluca Pastori (docente di politica statunitense alla Cattolica di Milano), l’obiettivo a breve termine di Trump sarebbe quello di catturare, con il rientro dei soldati, un consenso immediato da parte dei suoi elettori, in un momento di grande tensione come quello che la politica economica e le istituzioni statunitensi stanno attraversando. Forse, secondo il modo di vedere del presidente, questa uscita di scena sarebbe anche una riaffermazione dell’America First (prima l’America), ma secondo molti commentatori internazionali questa mossa si tradurrà in un ulteriore passo verso un’America Alone (l’America da sola). La prospettiva ventilata da Trump di un inserimento in Siria, al posto degli Usa, dei sauditi fa ovviamente inorridire molti siriani, e non solo.

Comunque, le conseguenze della decisione di un ritiro delle truppe Usa dalla Siria possono essere molto pesanti: il vuoto verrà con ogni probabilità immediatamente colmato dalla supremazia del blocco filo-Assad rappresentato da Turchia, Iran e Russia. L’abbandono dell’alleanza e del sostegno militare alle milizie Ypg curde, oltre al “tradimento” che ne deriva, consegnerebbe di fatto i curdi siriani nelle mani dei turchi, che non esiteranno a invadere completamente il Rojava per eliminare i “terroristi”, come li chiama Erdogan; è inoltre possibile una nuova espansione del jihadismo del Daesh, dei Qaedisti e delle decine di gruppi islamisti asserragliati a Idlib.

Ma, per riprendere l’opinione del vescovo caldeo, monsignor Audo, questo ritiro potrebbe in qualche modo anche favorire il processo diplomatico che, con i colloqui di Ginevra e di Astana, aprirebbe uno spiraglio alle trattative di pace. Siamo in molti a sperare che sia questo l’esito della, per molti versi incomprensibile, mossa del presidente statunitense.

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