Siria: splendore e dramma

Il conflitto in atto sta causando perdite irreparabili ad un patrimonio archeologico e monumentale tra i più ricchi del mondo. Zoom sul sito di Apamea
Via Colonnata di Apamea

Luglio 2011: in una immagine aerea di Google Earth appare ancora intatto con la sua celebre via Colonnata. Mi riferisco al sito archeologico di Apamea, città tra le più importanti della Siria settentrionale, costruita in epoca seleucide (IV-I sec. a. C.). Impressionante è invece la stessa immagine, ripresa nell’aprile 2012: suggerisce l’idea una groviera a causa delle miriadi di buchi praticati anche con ruspe dagli scavatori clandestini. È una delle conseguenze della guerra in corso, che oltre al pesante sacrificio di vite umane sta portando alla distruzione di un patrimonio archeologico e monumentale tra i più ricchi del mondo, che vanta sei siti segnalati dall’Unesco come bene dell’umanità. Basti pensare a nomi come Ebla, Mari, Ugarit, Aleppo, Apamea, Palmira, Damasco, Bosra… nomi che evocano città perdute nel deserto; templi, teatri e necropoli mirabilmente conservati; oasi di sogno; cittadelle medievali con castelli, mercati, caravanserragli; musei traboccanti di preziosi reperti ed ora alla mercè di vandalismi e ruberie, come è accaduto a quelli di Aleppo, Deir ez-Zor, Hama, Apamea, Palmira…

La cancellazione sistematica in Siria, ad opera dei fondamentalisti islamici – ma non solo – , delle vestigia del passato con raffigurazioni umane contrarie alle religione islamica non ha confronto con quella, pur gravissima, perpetrata dai talebani nel 2001 ai danni dei giganteschi Buddha di Bamiyan. Ora l’estremismo iconoclasta ha preso di mira mosaici bizantini, statue e rilievi greco-romani: tutto ciò, insomma, che presenta immagini della croce o mitologiche – una furia contro cui ben poco possono fare le popolazioni dei villaggi, il cui principale sostentamento era finora il turismo. Vengono in mente le distruzioni, ad Aleppo, del suk medievale e del minareto dalla grande moschea omayyde, quelle toccate alla città vecchia di Homs, a varie chiese, a monasteri come i due di Maalula, il villaggio cristiano dove ancora si parla aramaico, la lingua di Gesù, o i danni sofferti dalla celebre fortezza crociata del Krak dei Cavalieri, bombardata da parte dell’aviazione governativa. E ancora: il monastero di San Simeone Stilita trasformato in campo di addestramento per le truppe ribelli e teatro di feroci combattimenti.

In più, come accennavo prima, l’assenza di ogni controllo facilita il dilagare degli scavi clandestini, pianificati, come sembra, da organizzazioni criminali con base in Turchia, Iraq e Libano. Le aree più colpite sono le cosiddette città morte nella provincia di Idlib (Siria settentrionale), il sito di Mari e, alla frontiera tra mondo romano e partico, quello di Doura Europos, la “Pompei del deserto”, di cui si dice che l’80 per cento sia andato distrutto mediante l’impiego di bulldozer. E quale la sorte di molte chiese paleocristiane conservatesi finora per quindici secoli, sia pure, spesso, in condizioni di rudere? Preoccupano specialmente quelle sparse nella regione montuosa settentrionale, al confine con la Turchia, in una zona oggi sotto il controllo delle forze avverse al presidente Bashar al Assad e per questo sottoposta ai bombardamenti del regime.

E pensare che già molti anni prima dell’accendersi del conflitto era stato lanciato un appello per la difesa del patrimonio culturale siriano! Se la crisi perdura e non dovessero sortire effetto le iniziative internazionali per promuoverne la difesa e il restauro, tante testimonianze di questa terra crocevia di popoli,  sopravvissute per migliaia di anni ai terremoti, ai saccheggi e alle devastazioni dell’uomo, saranno presto ridotte in polvere. Fermo restando che hanno la precedenza su tutto le vite umane e l’assistenza ai superstiti e ai profughi, vittime innocenti della follia della guerra, per un Paese salvaguardare la memoria del proprio passato è premessa di ogni possibile futuro di civiltà.

Qualche successo finora lo ha ottenuto l’Unesco, tra cui la restituzione a Damasco di opere bloccate dalla polizia di frontiera col Libano. Intanto in Italia si sta progettando, partendo da Roma, la mostra europea Siria: splendore e dramma, il cui obiettivo è di sensibilizzare l’opinione pubblica al problema e magari far inserire la tutela dei beni culturali siriani nei negoziati di pace.

In attesa degli eventi, dopo aver dedicato precedenti itinerari a Palmira e alle chiese paleocristiane del IV secolo, propongo stavolta una visita virtuale ad Apamea, la città sull’Oronte di cui rimangono splendide rovine di epoca romana, bizantina e ottomana. Fondata nel III secolo a. C. da Seleuco I Nicatore, che le diede il nome della moglie di origine persiana, fu una delle metropoli dell’antichità (nel periodo di massimo sviluppo, sotto l’impero di Roma, arrivò ad avere anche mezzo milione di abitanti). Nel 115 d. C. venne distrutta da un devastante terremoto e quindi ricostruita da Traiano. Seguirono nel XII secolo altri due terremoti, in seguito ai quali si spopolò. Scavi sistematici, iniziati a partire dal 1928, stavano riportandola gradatamente alla luce, finché la guerra ha bloccato scavi e restauri.

Partiti da Homs (l’antica Emesa), dopo una cinquantina di chilometri appare, nella desolata solitudine della valle del Ghab, quello che è il simbolo di Apamea: un lunghissimo duplice colonnato color avorio pallido che ricorda vagamente l’infilata degli antichi acquedotti nella campagna romana. Quasi un'apparizione, di fronte a cui si rimane soggiogati, senza parole. Dopo aver superato la formidabile cinta muraria presso la porta di Antochia, ci si immette nel cardo maximus, la principale arteria stradale lunga circa due chilometri, che attraversa tutta la città in direzione nord-sud… ma la città dov’è, dal momento che ai lati di questo spettacolare colonnato non si vedono altro che prati? In effetti gli antichi quartieri sono ancora in gran parte sepolti.

Percorriamo la carreggiata, la cui larghezza totale è di metri 37,5, compresi i portici. Sui lastroni originari sono ancora visibili i solchi lasciati dalle ruote dei carri, come a Pompei. Per correggere la monotonia di questo rettifilo, i cui vari tratti furono realizzati sotto gli imperatori Traiano, Antonino Pio, Lucio vero e Marco Aurelio, gli architetti li alternarono con grandi archi nei punti d’incrocio con le vie secondarie. Dopo circa 400 metri, sulla sinistra, appaiono le terme di Giuliano Agrippa, riconoscibili per le condotte d’acqua e le sale adibite a calidarium e tepidarium. Al centro della strada si erge una colonna alta ben 14 metri: faceva parte del tetrapylon, monumento di forma cubica posto all’incrocio con una strada secondaria, che divideva il cardo in quattro parti. Da questo punto le colonne da lisce diventano scanalate, e più avanti ancora la scanalatura assumerà un movimento a spirale: altri accorgimenti per vivacizzare la sequenza dei porticati.

In  corrispondenza del tratto centrale della strada si notano i ruderi del tempio dedicato a Tyche, la Fortuna protettrice di Apamea, a ridosso del quale si apre l’ingresso laterale dell’agorà, la piazza principale. Nel punto più elevato sorgeva il tempio di Zeus Belos, l’oracolo che l’imperatore Settimio severo era solito consultare. Tra le dimore di lusso, spiccano nel quartiere orientale i resti di un palazzo con più di ottanta stanze che hanno restituito meravigliosi mosaici e di una domus detta “delle mensole”. E, nelle vicinanze, quelli della cattedrale di età bizantina (V sec.), fondata – sembra – per custodire una reliquia della croce. A pianta centrale quadrilobata, anch’essa ornata da splendidi mosaici, è considerata una delle più imponenti costruzioni di tutto l’Oriente cristiano. 

Tornando indietro e attraversando l’incrocio con il cardo, si arriva al teatro romano, costruito sul pendio naturale di una collina: con i suoi 139 metri di diametro è il più grande della Siria romana e, in assoluto, uno dei più grandi del mondo antico. Peccato che sia stato usato come una cava di pietra dai crociati e che ne resti ben poco.

Sovrasta Apamea la cittadella mamelucca, della quale però rimangono solo poche mura esterne. Ultima tappa sotto di essa, il Khan, uno dei maggiori caravanserragli della Siria, fatto costruire da Solimano il Magnifico nel 500. Perfettamente restaurato, le quattro ali raccolte attorno ad una corte centrale, è oggi sede del Museo, ricco di reperti e di mosaici romani e paleocristiani.

Cosa rimarrà, a guerra finita, di tutti questi tesori giunti fino a noi dopo secoli di devastazioni prodotte dagli uomini e dalla natura? Ecco una domanda a cui qualunque risposta sarebbe azzardata.

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