Singapore, isola del tesoro
La “tigre” è tornata a ruggire. Sviluppo, benessere, grattacieli. Ma il Paese cerca una propria identità.
Le sarà costata un bel po’, quella cena. Non solo per l’ottimo pesce messo a tavola. Ma soprattutto per le telefonate che la signora Susan ha fatto ad Hong Kong con la madre per cuocere al meglio le pietanze (molto apprezzate) per l’ospite italiano. Certo, sarebbe stato più conveniente e più riposante aver invitato la piccola comitiva a mangiare fuori. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Perché qui a Singapore l’invito che davvero vale è quello che accende i fornelli nelle mura domestiche. Spesso infatti le famiglie pranzano e cenano fuori, tanto sono contenuti i prezzi.
Quel che è singolare (e simpatico) è il fatto che la gente si riversa negli hawker centre, un tripudio di colori e di voci, una sagra di piatti e di odori. Ogni hawker centre è costituito da un complesso di piccoli esercizi, ciascuno specializzato nella cottura di un tipo di pesce, di carne, di verdura, nella preparazione di succhi ricavati da frutta fresca, nella vendita di bibite confezionate. Nello spazio centrale, sono predisposti numerosi tavolini per gustare i cibi più vari, rigorosamente con l’ausilio di bastoncini.
Tradizione e modernità
I singaporiani cercano di custodire le tradizioni culturali, storiche e religiose e allo stesso tempo stanno correndo con tassi di sviluppo e di ammodernamento che stupiscono gli occidentali. Basta muoversi nella città-Stato-isola e le alte gru segnalano il fervore edilizio che porta a demolire costruzioni anche recenti per tirare su con grande rapidità condomini con almeno 40 piani o grattacieli di vetro. Le dimensioni dell’isola (con annesse 59 isolette) sono assai contenute – lunga 42 chilometri e larga 23 – per cui i pochi terreni ancora edificabili valgono cifre rilevanti e il prezzo delle abitazioni è elevato. Solo una politica di edilizia pubblica ha consentito di venire incontro alle esigenze delle classi meno agiate.
Sulle acque della zona di Marina Bay si riflettono le lunghe sagome dei grattacieli lì concentrati. Stanno a guardarli con il naso all’insù i turisti prima di fotografare la grande scultura bianca del Merlion, simbolo del Paese, metà leone e metà pesce, dalla cui bocca parte un potente getto d’acqua che, nebulizzandosi, raggiunge molti visitatori, felici del momentaneo ristoro. Siamo poco sopra l’equatore: la temperatura si aggira sui 30 gradi e il tasso d’umidità supera l’80 per cento.
Singapore è protesa verso il futuro. Il settore elettronico e quello farmaceutico costituiscono i fattori trainanti. La crisi del 2009 è già alle spalle, perché il pacchetto di provvedimenti del governo (15 miliardi di dollari Usa) ha fatto ripartire lo sviluppo. E che accelerazione!
«Nel primo trimestre del 2010 il tasso di crescita ha superato il 13 per cento – ci spiega Pedro Henrique Furtado, ingegnere meccanico brasiliano, responsabile della filiale di un’azienda portoghese di logistica industriale –. Un risultato inatteso. Merito anche del piano di credito per la produttività e l’innovazione (350 milioni di dollari Usa), con consistenti detrazioni fiscali per gli investitori».
Singapore è sempre più un punto d’attrazione per l’area del Sud-Est asiatico. Numerose aziende europee e nordamericane hanno qui la loro sede per l’area orientale.
Meta ambita per il lavoro
L’isola del tesoro lo è per i 4,5 milioni di abitanti, che beneficiano di redditi (una media annua di 40 mila dollari Usa) molto superiori rispetto a quelli dei Paesi circostanti, dall’Indonesia alla Thailandia, alle Filippine. È la meta ambita dai lavoratori di tanta parte del Sud-Est asiatico, ma l’ingresso è regolato da norme assai severe: in pratica si può entrare solo per svolgere i lavori rifiutati dai residenti e per periodi di tempo legati ai progetti. I 300 metri del ponte che collega l’estremità meridionale della penisola malese all’isola sono presidiati da una ferrea organizzazione che vigila sugli ingressi. E tutto a Singapore funziona perfettamente, trasporti pubblici e infrastrutture. Tutto è pulito e in ordine, conseguenza di ottimi servizi (grazie a un bilancio pubblico in salute), di leggi fatte rispettare, di pesanti multe per gli incauti trasgressori.
Safe, ovvero sicurezza, è la parola in testa ai motivi di gradimento della popolazione. Bassissimo è il livello di microcriminalità. Sui prati perfettamente rasati dei parchi si può correre da soli a tarda sera (anche le donne) senza temere inconvenienti.
Singapore, considerata la tigre asiatica, è sicura del proprio futuro economico, ma resta in cerca di una propria fisionomia di fondo. La convivenza tra le diverse componenti non è infatti sufficiente a dare un’identità collettiva all’intera popolazione. Il governo è perciò impegnato a valorizzare un comune patrimonio culturale interetnico.
Un’operazione di non poco conto, mentre sono in corso rapidi mutamenti sociali di vasta portata. «Marito e moglie lavorano – ci spiega Juliana Ng, docente all’istituto di formazione per insegnanti delle scuole materne ed elementari –, ma è la donna che sta ora cogliendo tutte le opportunità. È sempre più istruita e sul lavoro fa carriera, anche perché gode di un indubbio vantaggio rispetto ai coetanei». I ragazzi, infatti, terminati gli studi superiori, sono chiamati al servizio di leva per due interi anni.
Questa situazione di vantaggio per le ragazze ha innescato da alcuni anni un fenomeno inedito per Singapore. Laureate, in carriera, indipendenti e benestanti, un numero crescente di donne non sogna più il matrimonio. Anzi, ne sta alla larga. Con conseguenze sociali che hanno messo in allerta il solerte governo nazionale subito proteso a trovare opportune soluzioni. Così ha incentivato (con un certo successo) gli innamoramenti con un’operazione da agenzia matrimoniale: vacanze di massa pagate ai dipendenti pubblici non ancora sposati.
Una parte del problema resta però ancora insoluto. «Le donne che si sposano – spiega la docente Ng – spesso non vogliono figli e, se arriva un erede, finisce per essere preso in cura dalla domestica».
Il calo demografico preoccupa. Mancano all’appello, secondo le previsioni statali, 10 mila bambini. Considerevoli sono gli aiuti per il secondo e terzo figlio, mentre si sta incentivando l’immigrazione – solo quella di alto livello però – per assicurare nuove nascite al Paese. E per inviare a tutti segnali di fiducia, il governo ha programmato la costruzione di 200 asili per bambini da un mese a sei anni. Quando si dice l’isola del tesoro!
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Tre razze, quattro lingue
Situata geograficamente in un punto strategico lungo le rotte dell’Estremo Oriente, Singapore è stata per lungo tempo terra di conquista. Dal 1500 fu preda di portoghesi e olandesi. Nel 1819 la Compagnia britannica delle Indie orientali crea qui un avamposto commerciale. Nel 1965 diviene una repubblica indipendente.
È un Paese con tre razze (cinesi, 65 per cento; malesi, 25; indiani, 10), quattro lingue ufficiali (quella nazionale, malese, e poi inglese, cinese-mandarino, tamil), una decina di religioni (buddhisti, quasi la metà; i cattolici sono il 3 per cento).
Le condizioni di benessere hanno indubbiamente favorito la convivenza tra sensibilità, tradizioni e culture assai diverse tra loro e i programmi educativi hanno facilitato l’integrazione. Questo non significa lo smarrimento delle identità d’origine. Girare nella zona di Chinatown nei giorni del capodanno cinese è molto istruttivo: tutto è chiuso. Mentre, spostandosi nell’area di Little India, passando magari vicino al tempio indù Sri Mariamman – il più antico dell’isola, con lo spettacolare gopuram ricco di un’infinità di piccole statue – ci si imbatte in un brulichio di gente attorno ai grandi magazzini e a punti di ristoro dagli odori fortemente speziati.
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L’imam Syed Hassan Al-Attas
Una fiducia lunga 60 anni
«Dall’epoca dell’arrivo degli inglesi, quando c’è una solennità religiosa, è festa in tutto il Paese. Il risultato è che abbiamo imparato gli uni dagli altri». L’imam Syed Hassan Al-Attas ci ha accolto nella moschea Ba’alwie con signorile ospitalità. È una delle personalità religiose più autorevoli di Singapore.
Timori di qualche estremismo?
«Prima di tutto, il governo non tollera persone che attaccano una religione. E poi tra noi leader delle varie religioni ci sono rapporti profondi e incontri regolari in modo da intervenire, se sorgono problemi, di comune accordo con fermezza e rapidità. Altri Paesi guardano a questo nostro metodo per adottarlo».
Nella vicina Malesia però sono state incendiate chiese.
«Lì, tanto i responsabili musulmani che quelli cristiani temono possibili sviluppi negativi. Noi confidiamo che la Malesia riesca a risolvere queste violenze».
Nel dicembre scorso sono stati festeggiati i 60 anni dell’Organizzazione interreligiosa di Singapore, di cui lei fa parte. Com’è stato possibile anticipare di gran lunga i tempi?
«Nel 1949 i pochi leader di allora si radunarono per dar vita a questa istituzione interreligiosa con lo scopo di incontrarsi, dialogare, imparare gli uni dagli altri. Quei capi religiosi avevano una grande personalità e una mente aperta. Noi crediamo che quando incomincia qualcosa con sincerità durerà nel tempo».