Sindrome di Down, una giornata necessaria per tutti

Non è una malattia, ma una condizione genetica di cui oggi si celebra la ricorrenza mondiale per sensibilizzare tutti alla costruzione di una società più inclusiva. C'è bisogno di interventi e politiche incisive, per garantire una vita davvero normale a queste persone e alle loro famiglie.

Il 21 marzo mi mette di buon umore perché è il giorno in cui inizia la primavera e finisce l’inverno, cosa che dal punto di vista metaforico e psicologico ha la sua importanza. Ma è anche un giorno pieno di tante altre ricorrenze, al punto da soddisfare le sensibilità di una buona fetta dell’umanità: in Italia è la Giornata della memoria e dell’impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie ed è anche la Festa degli alberi e del polline; vi cadono la Giornata mondiale per l’eliminazione della discriminazione razziale e la Giornata della poesia, patrocinata dall’Unesco. Infine, in tutto il mondo si celebra la Giornata mondiale della Sindrome di Down.

La scelta del giorno per ricordare la sindrome genetica più nota, forse anche ai non addetti ai lavori, non è casuale ma è forse sconosciuta a tanti: il nome scientifico della Sindrome di Down è “Trisomia 21”, per il fatto che al momento della prima divisione cellulare dopo il concepimento, il 21° cromosoma non si ridivide in una coppia ma in una terzina, dando vita ad un corredo genetico che viene definito, anziché di tipo disomicocome accade nella maggior parte dei casi, di tipo trisomico. Chi ha scelto questo giorno ha giocato sul numero del cromosoma interessato e sulla sua quantità: il 21° cromosoma è presente  3 volte: 21 da un lato e 3 dall’altro… et voilà, il passaggio al 21 marzo è presto fatto. Per lo stesso principio, se esistesse una trisomia del quinto cromosoma, probabilmente si ricorderebbe il 3 maggio.

Da addetto ai lavori, vorrei proporre al lettore un paio di riflessioni. Chi ha studiato come il 21° cromosoma provoca le caratteristiche tipiche della sindrome è il medico francese  Jerome Lejune, morto nel 1994, di cui è in corso la causa di beatificazione.

La sindrome di Down non è una malattia ma una condizione genetica. È vero anche che, fortunatamente in rari casi, essa si accompagna a stati patologici gravi, a volte incompatibili con la vita.

Parlare delle persone con la Sindrome di Down come di adulti e bambini affettuosi, dolci e accondiscendenti, sempre pronti a ricevere e a dare effusioni è falso, così come pensare che ogni persona con la sindrome possa raggiungere, grazie ai percorsi di riabilitazione, altissimi livelli di autonomia o possa essere inserito in un contesto lavorativo.

La parola Down deriva dal medico inglese John Langdon Down che nel 1866 pubblicò il primo studio sulle caratteristiche della sindrome. Per questo motivo bisogno usare sempre la “d” maiuscola, contrariamente a quanto si osserva spesso, perché Down è un nome proprio, non un avverbio.

Associazioni piccole e grandi, la scuola, istituzioni collegate ad essa, centri di riabilitazione, psicologici, sociologi, politici, amministratori si sforzano di migliorare la vita delle persone con la sindrome. Tutto ciò però non elimina del tutto lo stato di disabilità delle persone che vivono questa condizione, riferendomi anche ai familiari che hanno accolto una creatura con la “Trisomia 21”. Esiste una disabilità familiare fatta di disagi, di lotte per la rivendicazione di diritti elementari, di richiesta di condizioni per vivere una vita realmente normale, malgrado tutto.

Chi può fare la differenza? La risposta è semplice: una comunità matura, organizzata  e capace di orientarsi verso i più deboli, indistintamente. Scrive il professor Luigino Bruni: «Consentire alle diversità, ai problemi e alle povertà, di emergere, è un grande e potente indicatore di civiltà di un popolo, è un’alta forma di ricchezza delle nazioni. La piazza più bella del mondo è quella dove possiamo incontrarci tutti, con tutte le nostre abilità e inabilità diverse. La classe migliore è quella abitata dai nostri bambini e bambine, brillanti insieme a quelli che brillano diversamente. Sordi, ciechi, zoppi, depressi e felici, siamo invitati tutti allo stesso banchetto della convivialità delle differenze».

Questa necessaria trasformazione delle comunità permetterebbe a tutti di trovare il proprio spazio nel quale vivere meglio, senza dovere necessariamente rivendicare il sacrosanto diritto all’anonimato: spesso osservo infatti che alle persone disabili, in una trance più o meno collettiva volta a migliorarne la condizione, sia richiesto di rispondere sempre “presente” per essere all’altezza dello sforzo di una società che, in fondo, li vorrebbe diversi.

Converrebbe riflettere, ed agire di conseguenza, sull’imprescindibile valore della persona e sul concetto di felicità, diverso per ciascuno. Le comunità che funzionano generano il bene collettivo non come principio ideale, ma come conseguenza della realizzazione del bene di ogni singolo suo componente.

Per questo motivo ognuno di noi ha la possibilità di essere artefice dei processi di costruzione del bene comune pur non essendo “addetto ai valori” in uno specifico campo, per la semplice ragione secondo cui tutti possiamo essere “addetti ai  valori” che edificano le comunità.

 

 

 

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