Sindrome di Peter Pan
Volete scrivere un romanzo letteralmente costruttivo, peggio, edificante (che poi è la stessa cosa), e intimamente cristiano? Non aspettatevi aiuti e premi, ma bastoni tra le ruote e biasimi. Così Antonio Ferrazzani è emigrato romanzescamente in Germania e lì, in una Colonia post-Heinrich Böll e post-moderna ha dipanato una storia d’amore duplice: tra due giovani di cui lui purtroppo affetto, inconsapevole, dalla sindrome di Peter Pan (non vuole, perché non può, crescere, finché non prenda coscienza di sé), lei è una splendida ragazza aperta all’amore come alla vita (il suo voler figli è la causa scatenante della crisi matrimoniale); e tra il padre di lei, vedovo, e un’antica bella simpatia ritrovata. Arlette vede in Norbert quasi una reviviscenza privata del simpatico, geniale e sincero-disarmato filosofo Wittgenstein, a cui il ragazzo assomiglia – ed è questo il motivo poetico più delicato e complesso della narrazione, tra sogno e ridimensionamento del sogno -, lui parallelamente, nel dramma della separazione comincia a scoprire in sé la sindrome di cui sopra, rivisitando la sua infanzia e adolescenza deserta e minacciata da un padre cinico affarista e volgare donnaiolo; e lo fa proprio dal momento in cui tutto è precipitato casualmente” per un banale equivoco che gli ha fatto sospettare che tra Arlette e il padre di lei corrano rapporti incestuosi; ma è stata, appunto, la sindrome di Peter Pan a suggerirglieli inconsciamente, per spingerlo a liberarsi, con Arlette, della “minaccia” di avere figli, cioè di una responsabilità che non vuole assumersi. Intanto il padre di Arlette, il personaggio più simpatico del romanzo, uomo integro e modesto, giornalista senza carriera e uomo di cultura intellettualmente e moralmente solida (nella sua mente passeggiano a loro agio Britten e Mahler, Böll e Thomas Mann), nell’amore per Helga ritorna a sperimentare, come la figlia (pur ferita dal sospetto odioso e irreale del marito), l’amore come “struttura di creazione ” anche in un mondo che vuole continuare “senza produrre armonie”. E lo stesso Norbert nella sua lenta autoanalisi giunge a conclusioni da far arrossire ogni buon nichilista: “Il mondo ha un suo significato, sue motivazioni. Una sua speciale finalità. Solo che tutte queste cose non sono nel mondo. E quindi non è nel mondo che si può trovare la soddisfazione della nostra intelligenza. O, peggio, della nostra vita “. Comprende che la libertà è (kierkegaardianamente) “paradosso” e non consumismo, mentre la temporaneamente ripudiata Arlette si mantiene in perfetta onestà, come Ferrazzani ce la rappresenta con un vero tocco d’artista: “Un uomo a pochi passi volse lo sguardo nella sua direzione. Ma lei si fissò semplicemente le unghie”. La giusta “morale della favola”, che si conclude felicemente perché Norbert rocambolescamente ritrova se stesso e Arlette, la dice il padre di lei: “L’uomo è così. Il frutto dei suoi tentativi di essere”; anche lui ritrovato, dopo anni di solitudine, nell’amore. Ma a questo punto il più fragoroso coup de théatre lo spara l’autore con una “postfazione” che rivela il romanzo editorialmente “impossibile “, perché l’editore vorrebbe imporgli, pur accettando il racconto “positivo “, che i tempi paiono richiedere, almeno “una bella, morte. (…) Un cadavere ben esibito”, necessario ai conti editoriali. E Ferrazzani dimostra, con spiritosa intelligenza, in questo finale raddoppiato, che se si vuole davvero vivere occorre non solo amare contro tutti i sospetti, ma anche pubblicare contro (quasi) tutti gli editori.