Sindrome da assedio

L’economia italiana è entrata ufficialmente in recessione: la Comunità europea ci concede due anni per far quadrare i nostri conti nei limiti di Maastricht, questa volta però senza che ci inventiamo entrate fasulle. Siamo smarriti: unici in Europa con un prodotto lordo in caduta mentre il Pil dei paesi asiatici, dell’est europeo e dell’Africa subsahariana aumenta oltre il sei per cento. Quel che è peggio, il governo non ha in programma azioni convincenti per uscire da questo tunnel. Che fare? Al di là delle tattiche e delle furbizie, la politica dovrebbe restituire ai cittadini la speranza – senza la quale l’economia si avvita in una spirale negativa – che magari con qualche sacrificio si può certamente uscire dal tunnel, e dare alle aziende gli strumenti per ritagliarsi un ruolo specifico in questo mondo in trasformazione. Oggi l’occidente si sente assediato, non solo a causa del terrorismo. Gli Usa, che importano ormai due terzi dei loro consumi, hanno usato la forza per assicurarsi il petrolio iracheno, ma non hanno potuto impedire l’enorme crescita del prezzo del petrolio degli altri paesi. La Comunità europea invece ha saputo indurre molti paesi a scegliere la democrazia e i diritti umani con la prospettiva di una loro inclusione, e creare rapporti commerciali intensi con i paesi produttori; non è riuscita purtroppo a spiegare a sufficienza ai suoi cittadini questa sua saggia visione politica, anche perché molti suoi leader, anziché far fronte comune, hanno seminato veleno per motivi di corto respiro. La prima ragione di tutto questo sta nel fatto che i quattro quinti del mondo, che per varie ragioni vivevano chiusi in sé stessi con economie di sopravvivenza, si sono aperti alla globalizzazione e stanno utilizzando le regole che per essa l’occidente ha dettato. Insieme a tutte le economie più sviluppate, dobbiamo fare i conti con la crescita economica di questi quattro quinti dell’umanità e con la concor- renza di centinaia di milioni di lavoratori non tutelati che, per comperarsi un frigorifero, un televisore o uno scooter loro proposti quale via per la felicità, sono disposti ad accontentarsi di un ventesimo del nostro stipendio. Adesso quelli tra essi che già hanno raggiunto il loro scopo vorrebbero poter utilizzare questi apparecchi che consumano energia, la quale si produce soprattutto con il petrolio. Essendo ormai quasi arrivati al massimo della possibile produzione di questo combustibile, per lasciar funzionare il frigorifero del lavoratore cinese dobbiamo ridurre il nostro condizionatore o il nostro consumo di benzina: ce lo dice chiaramente il prezzo schizzato oltre i 60 dollari a barile, purtroppo non per una situazione di momentanea emergenza. Una alternativa al petrolio è il gas naturale, e quando abbiamo rinunciato all’energia nucleare ci siamo forniti di gasdotti per riceverlo dalla Russia e dal nord Africa: Spagna e Francia stanno ora attrezzandosi per ricevere metano liquefatto dall’Egitto con grandi navi, da scaricare in zone distanti dai centri abitati, non perché non siano sicure, ma per tener conto anche di possibili attacchi terroristici con natanti kamikaze! Comunque la globalizzazione non basta a risolvere i problemi dei paesi in sviluppo: il segretario dell’Onu Kofi Annan ha ultimamente affermato che la crescita economica, pur robusta in buona parte del mondo, non è da sola sufficiente a migliorare le condizioni di vita dei più poveri. Se vogliamo dimezzare la povertà entro il 2015 – ha affermato – dobbiamo trasformare la crescita in sviluppo per tutti, con politiche più intelligenti, più risorse e collaborazioni più strette, ponendo pari attenzione alla sicurezza, ai diritti umani ed allo sviluppo economico. Intanto, parallelamente all’invito di papa Benedetto XVI, in tutto il mondo si sono mobilitate le piazze per iniziativa delle rock star per chiedere al G8 di Edimburgo, che almeno sia cancellato il debito dei paesi più poveri. I tre punti di Kofi Annan, in effetti, sono tre aspetti di una unica visione per il progresso rispettoso di una umanità in cui tutti siamo responsabili gli uni degli altri. Una umanità fatta di persone, nessuna delle quali ci può essere indifferente o nemica: tutte hanno diritto alla sicurezza, ai diritti umani ed allo sviluppo. Anche i lavoratori cinesi, oggi in buona parte impiegati in aziende nate in Cina grazie a imprenditori occidentali, i quali dovrebbero sentirsi – o essere – obbligati a rispettare anche lì le regole del lavoro vigenti nei loro paesi. Anche le giovani famiglie africane che per il futuro dei loro figli si fanno estorcere quanto possiedono per affrontare con essi pericolose traversate nella speranza di poter svolgere da noi lavori che nessuno qui è più disposto ad eseguire. Siamo in un tempo di mutamento epocale, in cui la globalizzazione fa sentire i suoi effetti non sempre positivi; anche su buona parte degli abitanti della parte privilegiata del pianeta. Per non esserne travolti, occorre una vera mobilitazione culturale, che ci convinca del valore di una vita più sobria, della rinuncia per scelta, anziché per forza, a qualche comodità: rinunce minime rispetto a quelle che i nostri padri e nonni hanno dovuto vivere per le guerre del secolo scorso. Ma quando si è abituati ad una vita comoda, qualsiasi piccola rinuncia può sembrare tragica. Non solo, occorre anche una maggiore apertura all’altro: il segreto della prosperità degli Stati Uniti sta nella capacità di inserire ogni anno nel loro sistema economico milioni di immigrati: se da quest’anno gli italiani hanno ripreso a crescere di numero, lo si deve anche ai figli di persone più aperte alla vita che hanno scelto di vivere nel nostro paese. Gli attentati di Londra sono deflagrati in perfetta coincidenza con il G8.

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