Sindone: icona del dolore universale
Questa mattina nel Duomo di Torino è iniziata ufficialmente l’ostensione 2015 della Sindone, che durerà fino al 24 giugno, giorno di san Giovanni, patrono della città. L’arcivescovo, mons. Nosiglia, ha definito questa occasione «un grande segno di speranza, del bene che vince sul male». Ha continuato: «Mi auguro che i pellegrini tornino a casa con questo grande dono di speranza, perché la nostra vita ha bisogno di non perderla mai».
Il sindaco Piero Fassino ha affermato: «Anche questa ostensione resterà nella storia: Torino accoglierà a braccia aperte, e nel migliore dei modi, le centinaia di migliaia di pellegrini che arriveranno. La città è pronta e aspetta con trepidazione la visita di Papa Francesco». Sono in realtà già un milione le prenotazioni dei pellegrini che da tutto il mondo verranno a visitare la più famosa reliquia del mondo cristiano racchiusa nella teca di acciaio e cristallo.
Un richiamo per credenti e non credenti. Perché in quel lino, che raccoglie l’immagine d’un uomo che ha subito l’orrendo supplizio della crocifissione, è impressa l’icona del dolore universale. Come oggi non guardare quell’antico lenzuolo funebre e non vedervi impressi i volti delle centinaia di persone morte nel naufragio del barcone nel mare tra la Libia e l’Italia? Come non vedervi i volti delle persone orribilmente ammazzate dalla furia assassina dell’Isis?
La Sindone racconta la storia d’un giorno che si tende a dimenticare: il sabato santo. Giorno di lutto, di silenzio. Tempo vuoto, nel quale Dio è morto. Nel sepolcro pare esserci un solo vincitore: la Natura, la morte «belva enorme, implacabile e cieca», scriveva Dostoevskij. Sorge il dubbio: quel corpo livido, gonfio, tumefatto, sanguinante, arreso alla morte… poteva essere Dio? Come può essere destinato a risorgere un tale cadavere?
I cristiani danno fede alle testimonianze d’un pugno di poveri uomini della Galilea, di un gruppetto di donne, d’un fariseo che ha avuto un’esperienza mistica mentre si recava a Damasco: quel cadavere è risorto. L’hanno visto. Sembrano più stupiti loro a raccontarlo che noi a crederlo. È da questo che nasce la speranza di cui parla Mons. Nosiglia: ogni dolore è destinato a essere superato nella risurrezione. La sindone è l’immagine di un dolore straziante che c’è stato, ma che non ha vinto, ne sono rimaste solo le tracce sbiadite su un pezzo di stoffa.
Certo rimane la domanda di sempre: la sindone è un manufatto o una reliquia? Contiene l’immagine di Gesù o quella d’un uomo che ha subito sofferenze simili? Oggi lo scrittore palermitano Alessandro D’Avenia l’ha definita in modo simpatico «un selfie di Dio». Certo la Sindone continua a narrare in modo impressionantemente visivo la stessa storia dei Vangeli. E quindi – sia falsa o autentica – rimanda il pensiero a quel Gesù, carpentiere del povero villaggio di Nazareth, che i cristiani credono che sia Dio che s’è fatto uomo. Che ha volutoconfondersi tra gli uomini, per avvicinarli a sé.
Questa confusione è ancora racchiusa nel mistero che avvolge l’immagine impressa nel telo di Torino. È un «un selfie di Dio», o l’elaborato di un uomo? Probabilmente, a quel Dio che ha voluto confondersi con gli uomini, non importa un granché. Rimane l’occasione, di fronte alla sindone, per inchinarsi di fronte al dolore umano. E per sperare nella sua risurrezione. Per trovare le motivazioni per darsi prontamente da fare affinché il dolore compiuto dagli uomini sugli uomini venga ridotto.