Il sindacato e l’opposizione sociale a Draghi
Sindacato e società. Lo sciopero generale promosso da Cgil e Uil per giovedì 16 dicembre ha suscitato per lo più giudizi negativi sui principali mezzi di comunicazione perché è stato un primo segnale di opposizione sociale verso il governo Draghi. Un esecutivo di larghe intese fortemente voluto dal presidente della Repubblica Mattarella, ormai in via di uscita dal palazzo del Quirinale, per realizzare riforme strutturali di lungo termine. Una di queste riguarda il nuovo assetto del fisco che trova una sua prima applicazione nella legge di bilancio che sarà definita e approvata entro dicembre 2021. Proprio nel giorno dello sciopero i maggiori quotidiani hanno messo in evidenza i vantaggi per i redditi medio bassi dell’intero impianto dei nuovi scaglioni Irpef combinati con l’assegno unico previsto per le famiglie con figli. Una ricostruzione rigettata da altri esperti economisti che sottolineano, invece, la volontà del governo di non toccare il regime favorevole esistente per le classi sociali benestanti con la mancanza di progressività delle imposte. Materia che merita un approfondimento ad hoc.
Delocalizzazioni e potere dello Stato
Il problema più urgente è poi costituito dalla definizione delle misure necessarie per contrastare il precariato e le delocalizzazioni. Su questi unti si gioca la possibilità della componente di centrosinistra del governo di rappresentare quella parte del sindacato che è sceso nelle piazze di alcune città, Roma e Milano su tutte. Il Pd a gestione Renzi è stato l’artefice del Job act, la riforma del lavoro che suscitò l’ultimo sciopero generale prima di questo del 2021. Buona parte del Pd, anche dopo la scissione di Italia Viva, è ancora fedele a quell’impostazione basata sulla estrema flessibilità del lavoro come componente necessaria per attrarre investimenti privati, stranieri e no.
È perciò assai difficile trovare sostegno alle richieste della Cgil di uniformare le tante forme contrattuali esistenti diverse dal contratto a tempo indeterminato con quello di inserimento progressivo finalizzato alla stabilità del lavoratore. È complicato anche il rapporto con il M5S che ha sempre avuto un approccio critico verso i vertici sindacali visti come parte di una casta lontana dagli interessi delle persone. Nella diaspora del mondo pentastellato sono emerse posizioni molto diversificate tra loro, dalla destra alla sinistra estrema, ad esempio il senatore Matteo Mantero ha aderito a Potere al Popolo, mentre la linea del nuovo capo del Movimento, l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte, è vicina sostanzialmente a quella del Pd.
Appartiene alla componente più di sinistra di tale partito l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, un incarico scomodo che lo obbliga a gestire i tanti dossier aperti di crisi aziendali assieme al leghista Giancarlo Giorgetti, titolare dell’importante ministero dello Sviluppo economico. Orlando si è scontrato più volte con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che è riuscito, finora, a bloccare il varo di una legge contro le delocalizzazioni che cerca di porre un argine impossibile alla libertà di capitali interna all’Unione europea. Il testo normativo proposto dal ministero del Lavoro sulla falsariga del modello francese è considerato, allo stesso tempo, un grave ostacolo per gli investitori stranieri secondo Confindustria e una misura insufficiente secondo il collettivo dei lavoratori Gkn di Firenze che hanno presentato una diversa proposta di legge elaborata assieme all’associazione dei giuristi democratici.
Orlando si è anche recato sull’Appennino emiliano per manifestare la vicinanza alle 200 operaie dipendenti della Saga Coffee che ha deciso di chiudere la fabbrica di macchine industriale per il caffè espresso per spostare la produzione in Romania. L’azienda è controllata dalla bergamasca Evoca che appartiene, a sua volta, ad un fondo finanziario statunitense. Il ministro del Lavoro ha onestamente detto che non si possono fermare le delocalizzazioni ma solo rendere meno brutale e improvvisa la modalità di comunicazione ai dipendenti e premere per coinvolgere la proprietà nella ricerca di soluzioni alternative.
Si può dire che, nel caso specifico, andrebbero esaminate le ragioni della scomparsa progressiva di un distretto industriale del caffè in questa parte di una Regione benestante dove la sinistra ha da sempre governato come dimostra il fatto che l’attuale assessore regionale al lavoro proviene dalla Cgil. Il vero nodo che resta difficile affrontare è, infatti, la modalità di intendere la politica industriale e cioè se questa si deve limitare a creare le condizioni per facilitare gli investimenti privati o se, invece, si riconosce all’intervento pubblico un ruolo più attivo.
Nel primo caso i sindacati, in caso di crisi, possono trattare sulla cassa integrazione e gli incentivi all’esodo sperando che un nuovo soggetto imprenditoriale decida di investire al posto di quello che chiude la fabbrica. Aspettativa spesso frustrata come dimostra il caso dell’Embraco in Piemonte dove, dopo 4 anni di estenuanti trattative, la Whirpool sposta la fabbrica in Slovacchia e licenzia in maniera definitiva 400 lavoratori dopo proposte evanescenti di ipotetiche cordate industriali dispose a rilevare l’attività di produzione di elettrodomestici. Secondo la tesi dell’istituto Bruno Leoni, influente pensatoio liberal liberista, «non c’è legge al mondo che possa inchiodare un’impresa a mantenere un’attività in perdita. E, se ciò fosse possibile, finirebbe per spingere nel burrone anche le altre attività della medesima impresa, creando così un danno occupazionale molto più esteso». Un ragionamento che si basa sulla perdita finanziaria degli investitori che sono perciò liberi di far viaggiare i loro capitali dove meglio conviene, ad esempio nei Paesi dell’ex blocco sovietico entrati nella Ue, senza porsi la questione della finalità sociale dell’impresa.
Il caso emblematico della Gkn di Campi Bisenzio
Si rivela perciò emblematica la vertenza della Gkn di Campi Bisenzio che mette in evidenza la strategia di lungo termine del fondo finanziario Melrose di dismettere un’attività non ancora in perdita come la fabbrica fiorentina di componenti per il settore automobilistico legata fortemente al cliente Stellantis, ex Fiat Chrysler. Un segnale dei mercati finanziari sulle prospettive dell’industria dell’auto in Italia che dovrebbe inquietare il nostro governo visto che nel capitale di Stellantis è ormai prevalente la componente della famiglia Peugeot assieme alla presenza diretta dello stato francese con interesse evidente al mantenimento dei siti produttivi esistenti in Francia.
L’intenzione dei lavoratori del collettivo Gkn è quella di non disperdere un patrimonio di conoscenze e competenze maturate nel campo dell’automotive e, perciò, assieme ai ricercatori della Scuola superiore dell’università sant’Anna di Pisa, hanno elaborato un progetto industriale per un polo della mobilità sostenibile che richiede ovviamente l’intervento diretto dello Stato. Una prospettiva compatibile con la visione dell’economista Mariana Mazzucato e del professor Giovanni Dosi, promotore di un centro di ricerca a Pisa collegato con quello del Nobel Joseph Stiglitz della Columbia University di New York.
Una precedente ipotesi di polo per la mobilità sostenibile fu promossa, da parte degli operai e dai ricercatori dell’Enea, ad Arese nel 2004 sul sito dell’ex Alfa Romeo acquistata dalla Fiat. In quel caso mancò la volontà della mano pubblica di intervenire ma erano tempi lontani dall’emergenza ambientale e dalle grandi risorse disponibili con il Next generation Eu.
Anche oggi, tuttavia, la proposta che sembra profilarsi a breve è quella di una diversificazione, non nel settore auto, dell’attività produttiva a Campi Bisenzio promessa dall’imprenditore Francesco Borgomeo scelto come advisor dalla Gkn che sarebbe così libera di spostare macchine e impianti in Polonia.
In questo caso il rischio per il sindacato resta quello di rivendicare un ruolo attivo nella gestione della crisi salvo poi dover trattare aspetti marginali di scelte prese altrove. Il presupposto della pretesa avanzata dai lavoratori della Gkn è, invece, quello di esercitare un diritto di proprietà sulla fabbrica che evidentemente non è riconosciuto se non nel caso delle imprese recuperate dai dipendenti (100 casi in Italia) dopo l’abbandono dei proprietari come previsto da una legge del 1985 promossa dal democristiano Giovanni Marcora.
Il ruolo dei lavoratori e quindi del sindacato nelle politiche industriali si rivela centrale in diversi settori strategici. Ad esempio non può passare sotto silenzio il ricorso alla cassa integrazione per 13 settimane deciso per 3.400 dipendenti di siti produttivi meridionali della società Leonardo che è rientra tra quelle che non hanno subito interruzioni durante il momento più duro della pandemia perché dirette alla produzione della Difesa. Non era il settore delle armi quello propagandato come garante di occupazione?
Così come non può non porre seri interrogativi la decisione di Carrefour di licenziare 769 lavoratori quando proprio la società francese della grande distribuzione è stata in prima fila nel sostenere l’apertura indiscriminata dei supermercati (domenica, festivi e notturni) permessa dalla cosiddetta legge Salva Italia del governo tecnico di Mario Monti per creare nuovi posti di lavoro.
Un serio problema di rappresentanza politica
Lo sciopero di Cgil e Uil è stato indetto con lo slogan di “Insieme per la giustizia”, cioè il nome proprio del sindacato che si è presentato, tuttavia, diviso. Con la Cisl che farà una sua manifestazione separata sabato 18 dicembre a Roma ma si presenterà assieme alle altre sigle lunedì 20 dicembre per trattare con il governo il nodo delle pensioni, dove sta affiorando la necessità, avanzata da molto tempo dall’economista della Sapienza Felice Roberto Pizzuti, di assicurare una copertura contributiva ai giovani costretti alla inoccupazione o ai “lavoretti”. Si tratta di scongiurare un futuro miserevole alle attuali giovani generazioni.
Sono sfide enormi che il sindacato è chiamato ad affrontare scontando una mancanza di visibilità delle sue ragioni e della conseguente difficoltà a spostare l’attenzione sul merito dei problemi che pone. Il giorno dello sciopero la grande informazione si è concentrata sul plauso che l’Economist, settimanale finanziario controllato dal fondo Exor della famiglia Agnelli, ha tributato all’Italia guidata da Mario Draghi.
Al di là dello sciopero del 16 dicembre, considerato un successo o un flop a seconda dei punti di vista, resta da capire la consistenza reale dell’opposizione sociale che è emersa e la rappresentanza che riuscirà ad esprimere in vista delle prossime elezioni politiche.