I simboli feriti di Qaraqosh
Il deserto e le montagne si spandono sotto il ventre dell’aereo che scivola sopra l’area col più alto tasso di piombo al mondo. Non riesco a immaginare drammi, soprusi e carneficine che si perpetrano anche ora laggiù. Anzi, un po’ più a Sud, perché la compagnia aerea ha scelto di volare a Nord del campo di battaglia
– Aleppo, Raqqa, Mosul –, cosicché si scorgono le montagne innevate dei curdi che tanti dolori hanno conosciuto. Tramonto da urlo, in una terra dove c’è eccesso di urla. La colazione nell’attico dell’hotel mi svela Erbil, capitale del Kurdistan iracheno e il sottostante quartiere di Ankawa, quello cristiano. Un campo spianato ospitava fino a qualche giorno fa uno dei 25 campi allestiti per ospitare i cristiani in fuga dal Daesh, dall’agosto 2014. Oggi ne rimane uno solo. C’è polvere in sospensione, qualche grattacielo sfida chi vorrebbe l’Iraq una terra retrograda. Tra i commensali tre uomini dall’indefinita nazionalità sono feriti. Un inglese offre a due baffuti locali del materiale da ricostruzione con un catalogo patinato. Nella giornata incontrerò non poca gente che vive di guerra, è sempre così quando i cannoni si fanno sentire. È l’altra faccia della guerra, anzi la quarta: dopo militari, umanitari e vittime, ecco gli affaristi.
Pane, tè e lacrime
Visito l’ultimo dei tanti campi per i rifugiati cristiani di Mosul, Qaraqosh e Piana di Ninive: 1200 famiglie per 5 mila abitanti. Nel campo di container, sotto il patronato Unhcr, la vita va avanti nel fatalismo di un futuro incerto. L’Ong italiana “Un ponte per…” ha aperto una scuola, e c’è pure una chiesa siro-cattolica. Incontro una donna anziana, larga, anelli dorati alle mani, si chiama Henna Said Hanai. Il figlio sta cuocendo con la moglie del pane cosparso di formaggio in un bidone trasformato in forno, appiccicando le palle di pasta cruda sulle sue pareti, mentre il fuoco crepita sul fondo del contenitore. Entriamo nella loro “casa”, due container appaiati. Un frigo, un congelatore, qualche letto, tappeti, quadri votivi, bricchi, boccali di cavoli e fagiolini sott’aceto. Appaiono tazzine di gustosissimo tè, i locali si accovacciano per terra. Le lacrime scorrono. La donna parla, interrotta dai commenti degli altri familiari, 4 o 5 persone, tra cui una trisomica quarantenne: «Abbiamo lasciato due morti nel cimitero, a Qaraqosh. Quel 6 agosto 2014 siamo fuggiti, due mesi dopo il primo raid del Daesh, che aveva provocato morti, danni e terrore. Siamo stanchi, vogliamo costruire una nuova casa, ma non a Qaraqosh. Il Vangelo mi aiuta, lì andavamo a messa ogni giorno, c’era timor di Dio, si stava con gli amici, mentre qui la messa è di domenica e in città non ci vado. I musulmani? Non voglio vederli neanche dipinti, sono tutti terroristi». Tutti? «Beh, non proprio. C’è gente islamica che è fuggita con noi dall’invasione del Daesh. E poi questo frigo, lo vede? Mi è stato donato da un medico musulmano di Erbil, a cui ero ricorsa per i miei mali». Abuna Amanoel Filoo è il responsabile del campo di Ashti: «I fanatici del Daesh vogliono far fuori le minoranze: cristiani, yazidi, kaka’i, shabak. Il problema sta nei musulmani e nella loro mentalità. Anche se il Daesh verrà sconfitto, la sua mentalità rimarrà: ho sentito con le mie orecchie a Mosul l’imam suggerire a certe famiglie di non comprare case nuove, tanto entro breve tempo quelle dei cristiani sarebbero state disponibili gratis. Il problema è il Corano che influenza il 99,9% dei musulmani con le sue frasi sul jihad e lo sterminio dei cristiani».
Abominio
Sono le 13. Dalle 9 sono in giro per Qaraqosh con abuna Georges Jahola, prete siro-cattolico. Sono seduto su una sedia di plastica recuperata nelle sale del retrostante seminario. Bruciato e saccheggiato. Dinanzi una tavola imbandita dai volontari cristiani: una ventina di giovani e meno giovani si sono presi l’impegno di documentare i danni subiti dalle loro 6 mila case a opera del Daesh, che abuna Georges si ostina a chiamare Stato islamico, per sottolineare la diretta filiazione dall’Islam dei pazzi scatenati di al-Baghdadi. Confesso di essere rimasto interdetto ieri, nell’ascoltare abuna Amanoel inveire contro i musulmani. Abuna Georges è meno categorico – ha studiato 10 anni a Roma –, ma nella sostanza non la pensa altrimenti: «Non tutti i musulmani la pensano come il Daesh, ma troppi islamici, sunniti in particolare, la pensano come loro». Da stamattina i boati della battaglia di Mosul, ad appena 20 km, risuonano nell’aria. Nella città si incrociano soldati dell’esercito iracheno, di quello curdo e miliziani cristiani: per il momento sono dalla stessa parte, domani chi lo sa. E poi c’è lo spettacolo apocalittico delle vie della città ingombre d’ogni genere di oggetto: mattoni gommapiuma giocattoli tubi poltrone sedie cibo vetri sterpaglie coperte infissi cavi canaline controsoffitti quadri lamiere rossetti abiti taniche microonde bombole fari bacinelle frigo lavatrici lattine bossoli quaderni croci cocci cucchiai dentiere carrucole cartone bottiglie imbuti telefonini grondaie… L’elenco dà l’idea della violenza cieca che colpisce la quotidianità degli innocenti.
A San Giorgio si costruivano missili
Qui a Qaraqosh si può anche costatare la somma stupidità di prendersela con le croci. Visitiamo alcune chiese con abuna Georges. Mar Zena, santo locale: calcinacci, immagini sacre profanate crivellate stracciate squarciate, muri
misurabili dai fori delle raffiche di mitra, controsoffitti crollati al suo-lo, banchi bruciati, bestiali sfuriate di uomini drogati o ubriachi. La cupola si regge ancora per miracolo, appare recisa alla sua base salvo per un breve tratto di muro. Il cielo appare, e appare bello. L’Immacolata è invece la più grande chiesa di Qaraqosh: risale al XII secolo. Il campanile si regge in piedi per miracolo. La sua croce, così come quella della cupola, è stata divelta, ma i primi cristiani entrati nella città dopo la liberazione, ne hanno issata una sulla cupola danneggiata. La grande navata pare l’antro di una caverna. Sull’altare principale delle immagini sacre sono state deposte assieme a lumini e candele. Tre soldati delle milizie cristiane, mitra a tracolla, si avvicinano e accendono i loro ceri, le lacrime agli occhi. Il cortile: il lato orientale è stato usato come tiro a segno. Le colonne sono scarnificate, come avevo visto a Srebrenica, nelle case dei musulmani saccheggiate dai cristiani serbi: la guerra imbestialisce. Punto e basta. Nella chiesa antica scorgo un Cristo più grande che regge quel che resta di un Cristo più piccolo, che a sua volta sostiene un Sacro Cuore. Catena di misericordia. Entriamo poi nella chiesa del Battista, dopo aver consolato due uomini che hanno perduto la casa, ma non la fede (forse), la carità (di certo), la speranza (dubbi). Nel cortile una copia della Pietà michelangiolesca di San Pietro ha fatto la stessa fine. Monumento alla stupidità umana che s’accanisce contro le cose e non contro i sentimenti malvagi dell’uomo. Il grande jihad diventa il piccolo, e viceversa. San Giorgio è una chiesa ortodossa. Era sulla linea del fronte: il campanile resta in piedi come sfibrato e denudato, sfidato a Oriente dal minareto edificato per irridere i cristiani, come a Nazareth, a Beirut, altrove. La piazza circolare porta i segni indelebili del califfato. Accanto alla nuova basilica, ecco il luogo di culto più antico della città che conserva un affresco del XII secolo. Risparmiato, ignoranza crassa del Daesh. Nei locali della parrocchia era stata installata una fabbrica di armi: venivano mischiati composti chimici per missili e proiettili. Ci sono ancora misurini, bacinelle, bossoli, bilance, una radiografia bucata per creare la scritta “Isis” poi dipinta a spray sulle armi.
Il medico che ha operato due miliziani del Daesh
Sì, c’è dolore, c’è morte, c’è incapacità di riconciliarsi, tantomeno di perdonare. Ma le eccezioni ci sono. Piccoli-grandi eroismi. C’è chi ancora crede in una convivenza possibile tra minoranze e maggioranza musulmana. Bashar Hanna Azar è medico chirurgo cardiovascolare: «All’una di notte il telefono s’è messo a squillare, c’era un’urgenza. Arrivo e trovo sulle barelle due combattenti del Daesh, fatti prigionieri dell’esercito iracheno. Uno con una pallottola nel fianco, l’altro colpito da infarto. Per sopravvivere avevano bisogno di un’urgente intervento. Lo staff non aveva nessuna intenzione di operare. Non si poteva nemmeno rinviarli all’ospedale di Mosul. Abbiamo discusso per un’ora. Poi, per la mia fede cristiana e per il giuramento di Ippocrate, ho preso la decisione: li avrei operati io, mi assumevo ogni responsabilità. Ho estratto la pallottola e ho applicato tre pontaggi alle arterie del miliziano. Tutto ok. Ho parlato prima dell’operazione coi feriti: erano grati per quello che facevo loro, capivano che la loro vita era nelle mani di chi era stato da loro perseguitato». Conversiamo entrando ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil. All’ingresso, una grande statua della Madonna campeggia in mezzo alla strada. Saliamo poi alla Cittadella di Erbil, patrimonio dell’umanità Unesco. Appare imponente, su una piattaforma di roccia alta una sessantina di metri, costruita con mattoni più gialli che rossi, come la polvere del deserto. Il sito conosceva insediamenti umani già due millenni prima di Cristo. Laggiù la città giace sgraziata, prima nella bruma della polvere e poi in quella della prima pioggia che cade, benedicendo la città dopo 10 mesi di arsura. Erbil mi rimarrà nel cuore. Mi imbarco a Erbil per Beirut. Per combattere l’abominio non ci sono molte strade praticabili: il martirio è certamente efficace a lungo termine, a medio termine serve diplomazia, a breve la difesa integerrima. Per decenni ho lavorato con la mia penna per il dialogo coi musulmani, e ora mi trovo a fare i conti con l’abominio del Daesh.
Innegabile chiusura, totale, a ogni dialogo possibile, anche da parte cristiana. Nell’aereo una cinquantina di siriani ha al collo un badge: corridoi umanitari. Sono tra i pochi fortunati degli encomiabili sforzi di governi e Ong, costosi e selettivi ma da applaudire. I siriani restano silenziosi, hanno un che d’imbarazzato, forse è la prima volta che salgono su un aereo. Il volo conosce qualche turbolenza: a ogni scossa i bambini siriani saltano sui sedili come se qualche obice avesse colpito il nostro aereo. Ci vorranno anni e anni perché questi piccoli ritrovino la pace.
Testimoniare il Vangelo
Mons. Bashar M. Warda, l’arcivescovo caldeo di Erbil, è un uomo deciso. Di fronte alle emergenze sa sostenere la sua comunità, sa dare linee di azione, sa incoraggiare. Insegna e ascolta, pensa e decide. Mi riceve nell’episcopio di Erbil, nel sobborgo cristiano di Ankawa.
Che fate per i rifugiati cristiani qui ad Erbil?
L’impegno per la dignità di tutti i nostri fedeli è prioritario. C’erano 25 campi profughi dopo la grande fuga da Qaraqosh e Mosul dell’agosto 2014. Oggi ne è rimasto solo uno. Abbiamo avviato la ricerca di appartamenti e case in affitto, spesso obbligandoci a mettere due o tre famiglie negli stessi locali. Ma ora sembra che questa situazione stia migliorando. Una casa è meglio di un container. Aiutiamo i nostri fedeli in due modi: o pagando loro l’affitto, o dando un generico contributo per la loro vita. I soldi li raccogliamo da tante Ong cattoliche o cristiane, ma soprattutto con la comunione dei nostri fedeli.
Da poche settimane la città di Qaraqosh è stata liberata dal Daesh. Quali prospettive?
La comunità cristiana ha accolto con sollievo la notizia della liberazione di Qaraqosh. Ma è stata scioccata nel costatare subito i danni arrecati alle loro case. Le condizioni psicologiche, economiche e di sicurezza non permettono ancora un ripopolamento della città. Preferiamo rimanere ad Ankawa. Il governo cercherà di favorire il ritorno degli abitanti nelle loro case, anche per poter rimettere in moto la macchina dell’economia, ma la gente è impaurita. Serviranno garanzie certe, forse anche internazionali.
Come viene vissuto il Vangelo nella Chiesa caldea, oggi, in Kurdistan?
I fedeli al Vangelo oggi si prendono cura degli altri, pregano, usano i propri talenti per trovare soluzione ai tanti problemi della guerra, si occupano degli yazidi… Oggi si evangelizza soprattutto con l’esempio più che con le parole. È difficile cambiare il pensiero altrui con tanti discorsi, non si può convincere un musulmano dell’esistenza di un Dio Trinità, ma si può vivere, per così dire, “trinitariamente”. Ho invitato un musulmano a insegnare nella nostra università cattolica, anche questa è una testimonianza.
È tempo di riconciliazione, oppure bisognerà aspettare?
È sempre il tempo buono della riconciliazione, del perdono e della pace. La soluzione dell’attuale conflittualità è più religiosa che politica. Per far ciò noi cristiani dobbiamo portare il Cristo, dobbiamo proclamarlo con la nostra vita, e gli altri potranno così vederlo.
È tempo anche di emigrazione per tanti cristiani…
Quando viene da me una famiglia che vuole emigrare all’estero, gli chiedo se ha fatto bene i suoi calcoli, se ha i mezzi e le risorse psichiche per stare un paio d’anni in Giordania o in Libano per attendere il visto per espatriare in Canada o in Australia, o in Francia. Non è una buona decisione quella di emigrare, ma la libertà di farlo non può mancare, troppa gente è traumatizzata. Cerco comunque di incoraggiare tutti a rimanere, anche perché poi è difficilissimo tornare indietro. Per chi parte non ho soldi da offrire, ma per chi rimane sì.