Siamo veramente incattiviti?
Dal 1966 – certamente un’epoca “esplosiva” dal punto di vista socio-economico, con un clima di nuova speranza – il Censis fotografa l’Italia nel suo annale Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Quest’anno non è certo un rapporto dai colori pastello, ma piuttosto “accesi”.
Dopo il rancore, la cattiveria: per il 75% degli italiani gli immigrati fanno aumentare la criminalità (nonostante i dati registrino numeri diversi), e per il 63% sono un peso per il nostro sistema di welfare. Percezioni forse più emotive che reali.
La delusione per l’avvizzire della ripresa e per l’atteso cambiamento (impossibile?), ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella. Si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul filo del rasoio.
È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di “sovranismo mentale”, che talvolta assume i profili della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. L’attuale situazione è assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive.
Vi è un bisogno di sicurezza che chiude a una società aperta. Il 63% degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari (contro una media Ue del 52%) e il 45% anche da quelli comunitari (rispetto al 29% medio). I più ostili verso gli extracomunitari sono gli italiani più fragili. Il 58% degli italiani pensa che gli immigrati sottraggano posti di lavoro ai nostri connazionali, il 63% che rappresentino un peso per il nostro sistema di welfare e solo il 37% sottolinea il loro impatto favorevole sull’economia. Per il 75% l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità. Cosa attendersi per il futuro? Il 59,3% degli italiani è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.
Si critica il consumismo, ma vi è una fondata ricerca di consenso per i consumi. Il potere d’acquisto delle famiglie italiane è ancora inferiore del 6,3% in termini reali rispetto a quello del 2008. E i soldi restano fermi, preferibilmente in contanti.
I dispositivi digitali continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record. Oggi il 78,4% degli italiani utilizza Internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all’86,3% e all’85,1%. I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% in termini reali nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per i telefoni è più che triplicata nel decennio (+221,6%): nell’ultimo anno si sono spesi 23,7 miliardi di euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati.
Abbiamo finito per sacrificare ogni mito, o eroe, sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io. Siamo tutti divi ed eroi. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente «fondamentale» per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani). Il 41,8% crede di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande (il 52,3% tra i giovani).
L’area del non voto in Italia si compone di 13,7 milioni di persone alla Camera e 12,6 milioni al Senato: sono gli astenuti e i votanti scheda bianca o nulla alle ultime elezioni politiche. La percentuale dell’area del non voto sul totale degli aventi diritto è salita dall’11,3% del 1968 al 23,5% del 1996, fino al 29,4% del 2018. Il 49,5% degli italiani ritiene che gli attuali politici siano tutti uguali, e la quota sale al 52,2% tra chi ha un titolo di studio basso e al 54,8% tra le persone a basso reddito. L’abilità nel muoversi nella post-verità è la cifra del successo politico, se il 68,3% degli italiani ritiene che le fake news abbiano un impatto «molto» o «abbastanza» importante nell’orientare l’opinione pubblica
Ma oltre politica economia e istruzione cosa ci dice il Censis? La rottura delle relazioni affettive stabili: ci si sposa sempre meno e ci si lascia sempre di più. Dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4%, passando da 245.992 a 203.258. A diminuire sono soprattutto gli sposalizi religiosi (-33,6%), mentre quelli civili sono aumentati del 14,1%, fino a rappresentare il 46,9% del totale. Le separazioni sono aumentate dalle 80.407 del 2006 alle 91.706 del 2015 (+14%), mentre i divorzi, anche per impulso della legge sul «divorzio breve», raddoppiano letteralmente, passando dai 49.534 del 2006 ai 99.071 del 2016 (+100%). E cresce la «singletudine»: le persone sole non vedove sono aumentate de 50,3% dal 2007 al 2017 e oggi sono poco più di 5 milioni.
Il cambio di paradigma nell’informazione. Mentre i tg rafforzano la loro funzione (l’utenza passa dal 60,6% del 2017 al 65% del 2018), nell’ultimo anno Facebook ha subito una battuta d’arresto. Il calo ha coinvolto anche YouTube, Twitter e la rete in generale (i motori di ricerca hanno perso il 7,8% di utenza a fini informativi). In particolare, Facebook perde il 15,8% degli utenti a scopi informativi tra gli under 30 (dal 48,8% al 33%), i motori di ricerca passano dal 25,7% al 16,5% (-9,2%), YouTube dal 20,7% al 17,6% (-3,1%), Twitter dal 10,6% al 3,9% (-6,7%).
I nuovi riti, tic e tabù della vita digitale. Il 59,4% degli italiani che possiedono un cellulare evoluto dichiara che, invece di telefonare, preferisce inviare messaggi per comunicare. Il 50,9% controlla le notifiche del telefono come prima cosa al risveglio o come ultima prima di andare a dormire. Il 48,4% controlla le previsioni meteo nel corso della giornata. Il 30,1%, invece di digitare sulla tastiera, invia messaggi vocali. Un’altra piccola ossessione quotidiana riguarda il rapporto con la memoria. Il cellulare diventa una «protesi» utile ai nostri ricordi e alle nostre conoscenze, al punto che il 37,9% degli utenti, quando non ricorda un nome, una data o un evento, si affida alle risposte della rete per fugare ogni dubbio. Il 25,8% non esce di casa senza portare con sé il caricabatteria del cellulare.
Oltre questa foresta fitta di numeri, che letti con attenzione e meticolosità lasciano attoniti, le conclusioni del Censis non sono un inno alla speranza: «Ognuno – si legge nel rapporto – organizza la propria dimensione sociale fuori dagli schemi consolidati», e così il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore, «guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità», mentre il popolo suppone «che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale. Se siamo di fronte a una politica dell’annuncio», a giudizio del Censis «serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vincoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi».
Quanto narrato dal Rapporto Censis è più “confezionato” e orientato e avvalorato da dati, ma credo che ciascuno di noi già immaginava in maniera scomposta ed emotiva questo quadro. Ci arrendiamo, ci isoliamo, guardiamo tutti con elmetto e baionetta? Ognuno di noi capirà come spostare questa montagna di negativo per riprendere insieme ad altri un percorso di ricostruzione e di speranza. Magari facendo tacere i social e riscoprendo il piacere di una bella piazza reale.