Siamo tutti razzisti?
Musulmani, ebrei e valdesi lanciano un monito: il pericolo subdolo e silenzioso di un razzismo e di un antisemitismo che anche nel nostro Paese serpeggia tra la gente comune
Sono state colpite nel cuore, ferite in quello che di più intimo e prezioso hanno: la loro origine, la loro famiglia, la patria, la terra, il colore della pelle. L’assedio al campo rom di Torino, la strage di Genova e gli insulti fascisti contro la comunità ebraica di Roma hanno colpito loro, le minoranze presenti nel nostro Paese. Immigrati e rom, musulmani ed ebrei. E tutti, nessuno escluso, hanno scelto di non intraprendere la via della vendetta e neanche quella della rivendicazione polemica. Lo potevano fare. Di fronte alle morti e alle ceneri, questa volta forse ne avrebbero avuto tutte le ragioni. Ma no, hanno scelto di reagire a testa alta e con dignità, con quegli stessi atteggiamenti cioè con cui sono abituati a vivere sempre da ospiti nel nostro Paese.
Però un monito l’hanno voluto lanciare: il pericolo subdolo e silenzioso di un razzismo e di un antisemitismo che serpeggia tra gente comune. «Ho visto l’assassino negli occhi – racconta il fratello di uno dei due senegalesi uccisi a Firenze -. Aveva la faccia buona, camminava tranquillo, sembrava un cliente. Invece ha cominciato a sparare. Mio fratello era accanto a me, l’ha colpito per primo».
L’Unione delle comunità islamiche in Italia parla di una «mala pianta» che «è stata disgraziatamente seminata in profondità e innaffiata quasi quotidianamente da media irresponsabili e taluni sciagurati politici nazionali e locali e, temiamo, possa continuare a produrre i suoi frutti di morte e violenza ancora per molto tempo».
Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, parla di un «ritorno dell’odio, del pregiudizio e della xenofobia nelle nostre città»; di «un sottobosco di intolleranza che corre sulla rete e che si palesa sempre più spesso nella violenza e nel sangue. Sottovalutare questo fenomeno – prosegue Gattegna – sarebbe un errore gravissimo, così come non accorgerci della portata europea di tale recrudescenza come dimostrano i recenti fatti di Liegi, Parigi e Oslo. La risposta a questi attacchi deve essere una vigilanza costante e una lotta senza quartiere contro chi fomenta l’odio. Gli ebrei italiani faranno senz’altro la loro parte».
«Lascio ad altri fare delle analisi sociologiche o entrare nei dettagli – scrive Paolo Ribet, pastore della chiesa valdese di Torino –. Io mi limito a notare che in questa “notizia”, in realtà si intrecciano quattro o cinque notizie diverse, a seconda dei protagonisti che le hanno dato vita. E in ognuna di queste storie, noi possiamo leggere il degrado dei rapporti umani, l’incapacità di costruire una convivenza fra persone diverse e il ritorno di una voglia di violenza che speravo fosse vinta e che francamente fa paura».
Dicono che il razzismo si fomenta in tempi di crisi economica. Che il povero e l’immigrato siano l’immagine più evidente di ciò che non vogliamo diventare. Ma è proprio in tempi difficili come questi che occorre stringersi nella solidarietà e non lasciarsi tentare da vane rivendicazioni campanilistiche che assumono oggi sempre più l’immagine di una guerra tra poveri. La domanda che Torino, Genova, Roma ci pongono con crudezza è questa: siamo diventati davvero un Paese di razzisti? Razzisti no, ma vittime tutti di atti di razzismo sì. E allora ha ragione il pastore valdese di Torino quando dice: «È tempo di ricostituire il tessuto della nostra società, a partire dal rapporto tra le generazioni e nelle famiglie, fino ad arrivare a rapporti più ampi all’interno della società. È un lavoro lungo quello che ci aspetta ed è certo una sfida importante per le Chiese».