Siamo campioni: restiamolo
Noi sappiamo che ci sono cose più importanti, che la vita, quella vera scorre a Baghdad e a Gaza, nelle nostre case e nelle metropolitane. Ma ci sono momenti in cui il calcio porta via con sé, strappa da tutto, interrompendo, per un attimo, il fluire faticoso, sempre, ed incolore, spesso, delle vicende umane, facendoci gridare in modo vanitoso, e simpaticamente ridicolo: Siamo campioni del mondo!. In fondo il calcio è questo: la straordinaria sensazione di correre davvero tutti insieme sul carro dei vincitori. Lo certificano la voce roca e gli occhi lucidi che non sappiamo, o non vogliamo, nascondere. Noi, con loro, con i giocatori in campo, ci siamo sentiti eroi: il calcio è la simulazione più vicina alla realtà, quella più piena di energia, quella che tiene a galla e che ci fa credere ed indulgere ancora verso i sentimenti. L’Italia è campione del mondo: è vero, abbiamo vinto solo ai rigori, ma solo ai rigori per tre volte siamo usciti dal mondiale. L’Italia è campione del mondo e noi con lei, noi che siamo la sua gente, noi che non sappiamo né segnare, né tenere una palla ferma tra i piedi, ma siamo cresciuti in mezzo al fascino galeotto di questo sport che ci cattura da subito e che ci fa mettere tutto alle spalle. Anche se noi sappiamo che ci sono cose più importanti nella vita. Siamo campioni del mondo, come nessuno pensava e nessuno ci voleva. Men che meno i francesi che hanno giocato meglio di noi. Abbiamo vinto noi. Noi catenacciari e sporchi, corrotti e vittimisti. Noi di questo Paese che si fustiga e che manda i suoi campioni in B o in C. Perché noi siamo così: unici ed eclettici, morbosi ed avvelenati di lealtà, noi che ci aggrappiamo ad una idea di vita arrangiata e granitica ad un tempo. L’Italia è campione del mondo: la nostra terra, questo Paese strano e disincantato, dove per una notte si sono commossi tutti, perché, si sa, il calcio non è la vita, ma valla ad immaginare una vita senza il calcio. Spirito di gruppo Questa squadra ha rappresentato meglio di ogni altro un Paese che forse non c’è, ma che vorrebbe essere: onesto, lavoratore, che rispetta le regole e paga le tasse. Proprio dentro il vortice dello tsunami del calcio corrotto, per una volta non ci siamo fatti riconoscere: semmai ci siamo fatti riconoscere per quello che vorremmo, e potremmo, essere. È stato bello, speriamo, vogliamo, che duri. Speriamo, vogliamo, che duri quello spirito di gruppo che ci ha portati sul tetto del mondo, quello pallonaro. Il gruppo è una delle parole più usate, ed abusate, nel mondo del calcio. Gli allenatori ci si riempiono la bocca ed i giocatori fanno altrettanto. In Germania la storia è stata un’altra e, davvero, per una volta, si può affermare che il gruppo è stato lo schema vincente. Non era facile: ci si doveva gettare alle spalle il peggior scandalo della storia del pallone; si doveva giocare tenendo il profilo basso perché, con la fama che ci eravamo fatti, al primo fallo, alla prima protesta, gli arbitri ci avrebbero fatto a pezzi; si doveva lavorare duro e non si poteva fare affidamento sui colpi di classe e di genio di un Totti convalescente. Dove germogliavano perniciose le premesse di un fallimento, in trenta giorni è fiorito un successo. Una piccola rivoluzione cominciata con le zazzere diligentemente rasate, secondo un inatteso senso di disciplina, di Cannavaro, Del Piero e Totti a sostituire le sventurate treccine dell’ultimo Europeo, e continuata con l’atteggiamento in campo, contenuto nei falli e privo di scene isteriche. Testimoniata dalle scelte di Lippi che ha gestito le risorse a disposizione con intelligenza, concedendo a tutti un’occasione, portieri di riserva esclusi: tutti importanti, tutti gregari, nessuno indispensabile. Corroborata dalla leadership in campo di Gattuso, il mediano, quello che fa il lavoro sporco, quel lavoro che è diventato simbolo di questa squadra operaia (non per i denari, sarebbe un’offesa, ma per lo spirito). Ispirata dal regista Pirlo, finalmente approdato al destino che lo voleva, ma mai lo aveva ancora visto, erede di Rivera. Sospinta e protetta da una difesa granitica di cui Cannavaro è stato il condottiero e Buffon la saracinesca. Riacquisire credibilità Una squadra partita a fari spenti si è presa il suo spazio: difficile immaginarla collegata in qualche modo alle sceneggiate del nostro campionato, alla corte nota di veline e procuratori. Eppure Senza scandali non vincevamo!, è sfuggito alla sincerità di Gattuso. Proprio per questo non devono essere ammesse amnistie, non si possono accettare semplificazioni che vogliono separare atleti innocenti da dirigenti mascalzoni. Accusatori impietosi e presuntuosi hanno falciato tutti i fiori del campo pur sapendo benissimo che immaginare un calcio onesto e disinteressato in una società avida di denari e di successi è una pura illusione. Il pallone è di tutti, ma, prima di tutto, dei giocatori. Ora che se lo sono ripreso, con volontà e passione, dovranno tenerselo stretto e dimostrare, a sé stessi ed a tutti noi, che il giocattolo non è rotto e che da una disfatta di immagine e di credibilità può ripartire più pulito quel mondo del pallone che non appartiene solo a loro, ma ai sogni dei ragazzini sulle piazze e sui campetti di periferia. Accadrà, se non si dimenticheranno di esservi nati, i migliori talenti azzurri fioriti in terra d’Alemagna, gente come Grosso, Barzagli, Barone, Zaccardo e via dicendo, le cui facce, fino ad un mese fa, erano conosciute solo dagli addetti ai lavori. Quei ragazzi che potevano girare per strada tranquilli senza che alcuno li riconoscesse, né chiedesse loro l’autografo, si sono ritagliati un piccolo, grande spazio nella storia del nostro calcio, e non solo del nostro. Ci sono voluti i Mondiali per capire che in Italia ci sono giocatori che sono potuti entrare nella selezione dei migliori del torneo, ben sette su ventitré, e scusate se è poco. Il merito va a Lippi, il commissario tecnico, che ha fatto diventare protagonisti giocatori che in Italia devono lottare per trovare un posto da titolari nei propri club incrostati di stelle, stelline e stelle cadenti, tutte rigorosamente straniere. Persino Materazzi, forza e sregolatezza, un maniscalco che esulta, abbracciandolo, il primo che gli passa accanto, l’arbitro, dopo il gol alla Germania, potrà essere segnalato come uno stopper di livello internazionale, da gol in una finale mondiale, e non come un picchiatore di periferia o da spogliatoio. Solo al Mondiale, persino la stampa specializzata, ha scoperto quel gruppo di giocatori azzurri venuti dalla polvere. Il tutto mentre i Ronadinho, i Ronaldo, i Beckham, i Ballack, i Crespo, la finale se la sono vista alla televisione. La vittoria delle difese Il Mondiale potevano vincerlo la fantasia dei brasiliani o il collettivo. Il gioco, squisitamente tecnico, e purtroppo anche il sorriso, del Brasile, si è spento contro la Francia negli ottavi. Ha prevalso alla lunga il lavoro collettivo delle squadre europee, le quattro finali- ste, che muovendo con intelligenza le proprie pedine, ricorrendo al dribbling con parsimonia, hanno consentito ad onesti operai del pallone di emergere. Se il dribbling è libertà, quegli schemi hanno rappresentano la democrazia del calcio. È inutile nasconderlo: il Mondiale l’hanno vinto le difese, come testimonia il record negativo di reti segnate e, simbolicamente, lo striscione con la scritta: Cannavaro, ministro della Difesa. Non passerà l’ennesima fanfaronata di Blatter, monarca del calcio mondiale, che in nome dei gol e dello spettacolo vorrebbe allargare le porte. Primo: gli spettatori non la pensano così, visto che anche per Angola-Iran si è visto il tutto esaurito. Secondo: quando in palio c’è un titolo mondiale, quando devi inanellare un filotto di sette partite, quando devi arrivare fresco all’ultima, prevale il peso dell’astuzia tattica, degli schemi in cui imbrigliare la fantasia dei fuoriclasse. Per questo in Germania hanno vinto le difese e non gli attacchi, per questo il nostro capocannoniere è stato Materazzi e non Giardino; per questo al Mondiale si è ricorsi più allo spezzare il gioco che al costruirlo, con una abbondanza di cartellini gialli e rossi; per questo al Mondiale è andato avanti il Portogallo di Scolari, un tattico, un Mazzone dei ricchi, capace, con la fedeltà al suo credo, di vincere dodici partite di seguito in due Mondiali. Una straordinaria ribalta Pur nel trionfo della logica opportunistica del linguaggio tattico, il Mondiale ha rappresentato una straordinaria ribalta per squadre e campioni vecchi e nuovi, tristi tramonti accanto a scintille e bagliori di futura grandezza. La Spagna le cui polveri da sparo si bagnano, anche stavolta, prima della festa finale. Trinidad e Tobago, capace di ingabbiare l’esperta Inghilterra. Le africane, i cui talenti fanno splendere i club europei, ma insieme ancora mancano di quella disciplina tattica necessaria in manifestazioni di questo livello. L’Ucraina di Shevchenko, che arriva ai quarti al suo esordio mondiale, unica piccola fra otto grandi. Il brasiliano Cicinho, che in un quarto d’ora ha fatto più di Cafu e di Roberto Carlos nelle precedenti cinque ore e passa. Lo spagnolo Fabregas, prodigio di ragioneria creativa, passaggi filtranti e laser, dritti sul piede del compagno smarcato. L’argentino Messi, più che una promessa un giuramento sulla Bibbia del calcio, l’unico capace di tenere così a lungo la palla vicino al piede. Il vecchio Zizou Zidane, all’ultima partita della carriera, scivolato da re a teppista in una notte, per un triste addio di un campione che ci ha fatto sognare per anni. Diciamocelo: in Germania, dal punto di vista del bel gioco, si è disputato un campionato senza grandi fuochi d’artificio. Lo spettacolo l’hanno offerto, in diverse occasioni, più i tifosi con i loro colori e la loro passione che gli atleti in campo. Così come ha incantato, sparuti episodi a parte, il loro civile e contagioso entusiasmo per le strade e le piazze. Un atteggiamento che ha fatto bene anche ai giocatori: in quell’abbraccio ed in quei sorrisi sinceri fra Buffon e Barthez prima dei rigori c’era lo spirito e la poesia di uno sport che unisce ed appassiona la gente di tutto il pianeta.