Si ritira il “Maradona del rugby”: Dan Carter dice stop
Dan Carter è stato uno dei più celebri mediani d’apertura della storia del rugby, una sorta di “Maradona” della palla ovale per l’abbinamento tra carisma, tenacia e talento. Il suo ritiro, annunciato nell’ultimo fine settimana, sembra passare in sordina a causa della pandemia mondiale, ma per gli appassionati di rugby e gli sportivi di tutto il mondo è un fatto che chiude un’epoca memorabile. Emblema per anni del mito degli “All blacks” della sua Nuova Zelanda, isola ai confini del mondo baciata dalle divinità della palla ovale per la sua misteriosa capacità di sfornare in serie campionissimi, è ritenuto all’unanimità il più grande rugbista di tutti i tempi.
Carismatico e simbolico intonatore della mitica “Aka”, il canto di origine guerriera dei nativi zelandesi che la nazionale ripropone nel tempo prima di ogni incontro ufficiale, Carter vanta un palmares da favola. Vincitore della Coppa del Mondo con gli All Blacks nel 2011 e nel 2015, per 112 convocazioni nella nazionale neozelandese, lascia il rugby giocato detenendo il record del maggior numero di punti segnati nei test match internazionali: 1.598, ben 350 in più del secondo classificato, Jonny Wilkinson. Tre volte premiato come giocatore dell’anno, come il “Pallone d’oro” del calcio, per capirci, ha vinto sostanzialmente tutto il vincibile in ballo nel rugby sul piano planetario. Solo un altro All Black, Richie McCaw, era risultato per tre volte il “migliore al mondo” quanto a riconoscimento. A livello di club, ha conquistato il titolo in tre paesi diversi: il Super Rugby australiano 3 volte, con i Canterbury Crusaders; il Top 14 francese 2 volte, con Perpignan e Racing Parigi; la Top League giapponese con i Kobelco Steelers.
Dopo 19 anni di professionismo, poche settimane prima di compiere 39 anni, il suo addio all’attività agonistica è arrivato tramite una nota sui propri profili social: “Mi ritiro ufficialmente dal rugby – ha scritto il leggendario atleta su Twitter -. Uno sport che ho giocato per 32 anni, che ha formato la persona che sono diventata oggi. Non posso che ringraziare tutte le persone che sono state coinvolte in questa mia avventura, con un pensiero particolare ai tifosi. Il rugby sarà sempre parte della mia vita. Grazie”. Ritenuto l’archetipo ideale nel suo ruolo, esemplare nel calciare con il suo sinistro straordinariamente preciso così come con la palla in mano, ha illustrato una vera e propria arte geometrica del gioco. Numero 10, mancino purissimo come “El Pibe de oro”, dopo essersi ritirato dalla nazionale, ha giocato tre anni nel Racing 92 Parigi (prima in Francia era stato anche al Perpignan) e altre due stagioni in Giappone ai Kobe Steelers. La scorsa estate era tornato in Nuova Zelanda per un breve periodo con gli Auckland Blues, mantenendo il proposito di chiudere la carriera giocando in patria.
«Mi sono reso conto che non avevo la stessa forza di volontà delle mie precedenti stagioni in Nuova Zelanda. Così nel frattempo ho capito che non volevo più viaggiare a causa della pandemia, mi sono detto che era il momento giusto per smettere, – ha spiegato in un’intervista ai colleghi dell’Equipe. – Ho dedicato tutta la mia vita al rugby, sono felice di aver conosciuto grandi club, compagni di squadra e tifosi da tutto il mondo. Tutto questo mi ha reso molto felice, ma adesso è anche bello godersi i fine settimana con la famiglia, andare a prendere i miei figli alle 15 dopo la scuola. E il mio corpo mi ringrazia per non dover più giocare!». La sua uscita di scena è salutata con ammirazione da ex compagni e avversari nel mondo: «Congratulazioni, amico mio. È stato un onore giocare contro di te così spesso, meno perdere così spesso! Goditi il tuo ritiro, te lo sei meritato», lo ha omaggiato il suo omologo australiano Matt Giteau. «Sei stato un’ispirazione per tutti i n° 10: è stato un privilegio giocare contro i migliori», ha affermato da parte sua l’ex apertura dei “Wallabies” Quade Cooper.
Annunciando il ritiro al NZ Herald, Carter ha spiegato come il corpo avrebbe anche potuto continuare ancora per qualche anno, ma la sua testa ha già staccato, non avendo più obiettivi da raggiungere. «L’esperienza in Giappone – ha affermato – è stata fantastica sotto tutti i punti di vista, sportivo e culturale. Non stavo pensando neanche lontanamente di smettere. Quando sono dovuto tornare in Nuova Zelanda per il Covid, interrompere il contratto è stato frustrante. Certo, l’esperienza ai Blues poi mi è piaciuta. Amo far parte di una squadra, ma ho anche realizzato che io ho sempre giocato per essere il migliore. Ma tornando, ho sentito che non avevo più niente da dimostrare e sono venute meno le motivazioni per rimettermi in gioco con ragazzi più giovani. Inizialmente ho pensato di aprire a offerte dall’estero, devo pur sempre provvedere alla mia famiglia, ma quando ho pensato ai miei bambini e agli impegni che mia moglie Honor si è dovuta sobbarcare da sola mentre io inseguivo il mio sogno, ho realizzato che era giunta l’ora di smettere».
«Con il passare dei giorni, ho capito anche che non mi interessavano più i contratti dall’estero e nemmeno continuare in Nuova Zelanda». Carter non pensa al momento alla carriera di allenatore: «Non fa per me. Il rugby è tutto quello che ho sempre fatto, lo conosco in ogni suo dettaglio e so che la competenza potrebbe essere trasmessa. Ma sono sempre stato un vincente, il mio unico obiettivo è stato sempre solo la vittoria e so benissimo quale sia l’impegno che si richiede a un allenatore che abbia questa mentalità. So che non smetterei mai di lavorare, ho visto con i miei occhi allenatori che lo fanno, che non hanno più tempo per loro e per le famiglie. Sono totalmente dedicati alle loro squadre e ai loro giocatori. Se io smetto di giocare, lo faccio per stare con la mia famiglia. Quindi non mi prenderei un altro impegno che me lo impedirebbe». Il rugby resterà certo nella vita di Carter: Dan Carter è il rugby nella sua sublimazione. Ma al momento, la meta è chiaramente un’altra e si chiama famiglia.