Si riparla di diritto di cittadinanza
La mobilità umana sembra ormai essere un dato di fatto. Il movimento delle persone cresce infatti a ritmi vertiginosi: se nel 2000 si sono spostate per vivere in un’altra nazione 175 milioni di persone, nel 2017, secondo gli ultimi dati disponibili ONU, se ne sono mosse quasi 258 milioni.
Dal XXVIII Rapporto Immigrazione Caritas, dal significativo titolo Non si tratta solo di migranti, emerge che in Europa ci sono 39,9 milioni di cittadini stranieri; in Italia sono 5.255.503 e rappresentano l’8,7% della popolazione totale.
Circa 8.000 sono i minori non accompagnati di cui il 30% risiede in Sicilia e l’incidenza dei nati stranieri sul totale dei nati è pari al 14,9%, con una punta massima del 24,3% in Emilia Romagna.
I minori di seconda generazione sono 1 milione e 316 mila, pari al 13% della popolazione minorenne; di questi, il 75% è nato in Italia (991 mila). Nell’anno scolastico 2017/2018, con una cifra pari a oltre 840mila, la percentuale di alunni stranieri è stata del 9,3%.
Eppure… sul fronte del riconoscimento del diritto di cittadinanza, dopo anni di discussioni parlamentari, tutto ancora tace. Anzi, la situazione peggiora. Secondo l’Istat, i cittadini divenuti italiani per acquisizione della cittadinanza nel 2018 sono solo 113 mila, – 23% rispetto al 2017. Ciò è dovuto al generale inasprimento delle politiche migratorie del nostro Paese (Decreto sicurezza I e II), scaturite da visioni sostenute da alcuni esponenti politici che paventavano la “sostituzione etnica” e ”l’islamizzazione del paese”.
Oggi le procedure per l’acquisizione della cittadinanza sono ancorate all’anacronistico sistema legato al principio dello ius sanguinis. Inoltre, molti stranieri evitano di farne richiesta per le scoraggianti lungaggini burocratiche.
Di fronte a questo “contrasto stridente fra la mobilità del lavoro su scala mondiale e la chiusura dello spazio politico della cittadinanza” (Ricoeur), il nostro Paese ha dunque due urgenze: decriminalizzare l’immigrazione abrogando buona parte della L. 94/2009 (reato di clandestinità) e avviare un processo di ammodernamento legislativo, modificando la L. 91/1992 (diritto di cittadinanza).
Sono anni che sulla figura dell’immigrato si scaricano le inquietudini di una società fortemente provata dalla crisi. È però un errore arretrare sul piano delle lotte di civiltà. Anzi, è proprio in questo particolare momento che occorre rafforzare il concetto di uguaglianza e mettere a punto strumenti che la possano garantire. La cittadinanza, come affermava il sociologo T. H. Marshall, è la sostanza dell’uguaglianza poiché comprende l’elemento civile, costituito dai diritti che sono le condizioni della libertà individuale; l’elemento politico, ossia il diritto di partecipare all’esercizio del potere politico; l’elemento sociale, che rappresenta il diritto a garanzie minime di sussistenza.
È insensato che una persona nata in Italia non abbia il diritto alla cittadinanza italiana. Non a caso, la frase del film Bangla più citata è proprio «Mi chiamo Phaim, ho 22 anni e anche se mi vedete un po’ negro in realtà sono italiano. Diciamo più una via di mezzo, tipo cappuccino. 50% Bangla, 50% Italia e 100% Torpigna!” » (Torpignattara, Torpigna in romanesco, è un quartiere di Roma). Come a dire che si può solo essere cittadini di un luogo che si vive quotidianamente.
Modificare la legge sulla cittadinanza per gli stranieri, passando da una visione di cittadinanza centrata sullo stato ad una visione centrata sulla persona, non significa stravolgere l’ordinamento italiano, ma prendere atto che i diritti fondamentali superano i confini della geografia politica. Questa è la premessa logica della democrazia. È evidente poi che a ciò sia collegata anche un’altra questione. L’esercizio dei diritti politici, come il voto alle elezioni amministrative è il primo passo verso un’equiparazione che non sia solo enunciata ma alla quale corrispondano diritti e doveri reali.
Durante i Governi Renzi/Gentiloni si è tentato di arrivare ad una sintesi/mediazione di tutte le proposte emerse negli anni, anche su stimolo delle due Campagne L’Italia sono anch’io e Ero straniero. L’umanità che fa bene, promosse da un ampio cartelle di organizzazioni della società civile.
Il cosiddetto ius soli temperato che introduceva la possibilità per i nati in Italia da genitori stranieri di richiedere la cittadinanza a determinate condizioni: frequentare un ciclo scolastico quinquennale oppure avere un genitore “soggiornante di lungo periodo” con un certo reddito, un certo tipo di alloggio e una conoscenza della lingua italiana accertata. È dunque necessario che nella discussione in corso, per evitare il rischio di una riforma monca, inutile e persino dannosa, si riparta almeno dal testo approvato dal solo Senato nel 2017.
Dopo due anni da quell’occasione persa, in commissione Affari costituzionali alla Camera è ripartito l’iter delle proposte di legge sulla cittadinanza. Una di queste, al momento la più caldeggiata, è quella dello ius culturae, ossia la possibilità di ottenerla dopo aver completato un ciclo di studi di almeno 5 anni.
Ma la precedente proposta composta dal mix ius soli temperato e ius culturae era già un compromesso, rispetto allo ius soli auspicato, che si era accettato solo per non allungare per chissà quanti altri anni i tempi della riforma.
In questo senso uno ius culturae puro sarebbe un ulteriore arretramento rispetto alla proposta del 2017 e ciò per due motivi: uno formale e uno sostanziale. Dando la cittadinanza solo ai bambini che hanno concluso almeno un ciclo di studi di cinque anni, si fa surrettiziamente passare l’idea che esiste una differenza fra bambini stranieri e bambini autoctoni. Ai primi, per ottenere la cittadinanza, viene esplicitamente chiesto di frequentare la scuola. Ma ai minori italiani che non vanno a scuola, la cittadinanza viene tolta? Inoltre, la nostra Costituzione (art.34) contiene importanti garanzie e regole in materia di studio e frequenza, a cui non serve aggiungere nulla. Dal punto di vista sostanziale, poi, lo ius culturae, per come viene proposto, negherebbe di fatto la cittadinanza ai minori che arrivano in Italia e hanno più di 12 anni.
«Migranti è un aggettivo, le persone sono sostantivi» ha detto il papa durante l’udienza del 29 settembre 2019 per celebrare la 105esima giornata del Migrante e del Rifugiato.
Oggi ci troviamo davanti ad un esercito di minori senza cittadinanza, in virtù dell’aggettivo che li accompagna. Chiediamo pertanto alla politica di andare alla sostanza della questione, di considerare il sostantivo persona, provando a superare – visto che si tratta della vita di bambini e bambine – quelle divisioni politiche che, per paura di una fantomatica invasione o per paura di una presa di posizione netta, rischiano di produrre la stessa immobilità dei precedenti 20 anni, un’immobilità che ha finito per punire migliaia di bambini per il solo motivo di essere stranieri.
In un mondo profondamente cambiato, si abbia il coraggio di convertire lo ius sanguinis in ius soli, in modo tale che si affermi il principio che chi nasce in Italia, è italiano. Solo così avremmo uno Stato che prova di fatto a garantire a tutti i minori le stesse condizioni di partenza, rimuovendo, come dice la nostra Costituzione, tutti gli eventuali ostacoli.