Si può ridere della mafia?

Smitizzare e privare di ogni fascino i boss di Cosa nostra: qualche film ci prova. In Noi e la Giulia i camorristi vengono derisi, maltrattati ed umiliati. Fino a poco tempo fa i film sulla mafia erano solo drammatici, oggi si è alzata una brezza sottile. Sorridere al nemico significa conoscerlo, averne compreso limiti e debolezze
Noi e la Giulia

Noi e la Giulia è soprattutto un film sulla voglia di combattere di una generazione data per sconfitta, di quarantenni smarriti, insicuri e preoccupati del presente, del futuro manco a parlarne. C'è la loro voglia di inventarsi alternative agli schemi costruiti dalla società, ormai troppi anni fa, e c'è un ripensamento del concetto stesso di realizzazione: chi è il fallito?

Solo quello che non ha superato i test imposti della società? Che non ha abbastanza soldi, potere ed obiettivi raggiunti da mostrare? O anche quello che pur avendo superato le prove obbligatorie, almeno fino ad ora, non si sente poi così felice? E avverte che molto non torna, e che la tassa da pagare per rimanere a galla obbliga a tagliare quasi tutte le altre spese dell'anima?

Ci sarebbe da discuterne, ma non in questa sede, perché la recente commedia di Edoardo Leo, basata sul romanzo Giulia 1300 ed altri miracoli di Fabio Bartolomei tocca anche un altro argomento, o quantomeno suscita ulteriori spunti, andando ad allargare un piccolo sentiero aperto di recente da un paio di commedie italiane, entrambe del 2014, ed è su questo che si vuole porre una domanda: in Noi e la Giulia succede che i camorristi vengano derisi, maltrattati ed umiliati; capita prima al boss interpretato da Carlo Buccirosso e poi a due ragazzetti che paiono la parodia degli “anarchici” del film Gomorra, quelli che non volevano prendere ordini da nessuno e poi finivano malissimo.

Sia il maturo che gli acerbi criminali piombano all'agriturismo dei disgraziati in cerca di speranza per imporre loro il pizzo, ma appena scesi dai veicoli – il primo dalla Giulia verde che dà il titolo al film e i secondi da un motorino rumorosamente smarmittato –  tutti vengono colpiti da inaspettati pugni di rabbia, liberatori per il pubblico, e poi vengono chiusi sotto chiave in una stanza.

A Buccirosso viene concessa qualche prelibatezza alimentare, agli esagitati guagliuncelli di sparare qualche colpo, ma solo virtualmente allo schermo piatto del televisore, né più né meno di come fanno tanti ragazzini quando giocano alla play. La riflessione è la seguente: si può ridere di mafia? E' giusto farlo? Si può toccare questo delicato e drammatico tema col sorriso?

Il pensiero va a La nostra terra di Giulio Manfredonia, dove un manipolo di improvvisati e bizzarri contadini combatteva la mafia coltivando pomodori e melanzane sui terreni a questa confiscati, e a La mafia uccide solo d'estate di Pier Francesco Diliberto, in arte Pif, che racconta trent'anni di mafia in Sicilia smitizzando e deprivando di ogni forma di fascino i boss di cosa nostra.

Entrambe le commedie affrontano il grande male con ironia e leggerezza, e se la prima testimonia un collettivo desiderio di ribellarsi al tanto enorme quanto antico problema (cosa che capita anche in Noi e la Giulia), Pif tiene viva la memoria di uomini giusti e coraggiosi come Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, riuscendo a far sorridere mentre attraversa la grande piaga.

Per trovare qualcosa di simile, e il paragone è abbastanza azzardato, bisogna andare a circa venticinque anni fa, quando, senza rendersene conto, nel 1991 un film comico faceva qualcosa del genere: era Johnny Stecchino di Roberto Benigni, scritto dal compianto Vincenzo Cerami, il quale ricordava che pur trattandosi di una pellicola nata per far ridere un’Italia come al solito nei guai, venne giudicata da un autorevole critico di allora come un importante film contro la mafia, proprio perché la ridicolizzava, la prendeva per i fondelli e dipingeva i mafiosi con un cervello piccolo piccolo, e questo alla mafia non piace per niente.

Lo stesso Roberto Saviano, tempo fa, partecipando nel ruolo di se stesso ad una fortunata parodia web della serie tv Gomorra, quella divertentissima di “The Jackal”, si è espresso sul fatto che molti ragazzi oggi ripetano le battute storpiate della serie che ridicolizza la camorra: «Secondo me facendo così la smontano – dice soddisfatto lo scrittore – fanno bene a riderne».

Fino a un po' di tempo fa i film sulla mafia erano solo drammatici, pensiamo, per non andare troppo in là con gli anni, a I cento passi di Marco Tullio Giordana (su Peppino Impastato), o a Alla luce del sole di Roberto Faenza (sul sacerdote Don Pino Puglisi), oppure a Fortapasc di Marco Risi, sul giornalista napoletano Giancarlo Siani; se in quei film c'era qualche momento più leggero era perché raccontando delle vite ci si imbatte per forza nei sorrisi e in qualche attimo di pace e di armonia, ma quelle opere non erano commedie.

Oggi si è alzata una leggera brezza, sottile sottile, magari il segnale di come il dolore ed il terrore stiano facendo finalmente spazio a un desiderio di reazione collettiva, come se l'assurdo in cui viviamo non sia più tollerabile dal popolo. Non si riesce a ridere se si è terrorizzati, mentre sorridere al nemico significa conoscerlo, averne compreso i limiti e le debolezze, aver capito come è fatto e forse aver intuito una soluzione. La risata potrebbe esprimere una forte voglia di ribellione, e questo sarebbe un grande cambiamento. Sarebbe bello se tutto questo fosse vero, sarebbe stupendo. 

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