Rivoluzione senza leader?

Le grandi manifestazioni popolari, soprattutto giovanili, un po’ in tutto il mondo, hanno una nota comune tra le altre: non ci sono capi ben definiti. Possono le dinamiche sociali che usano i social network sostituirli efficacemente?

In Iraq, in Algeria, in Sudan, in Libano, ma anche in Cile, a Hong Kong e in Francia, centinaia di migliaia di manifestanti scendono in piazza senza ordini partitici particolari e chiedono un cambiamento totale della classe politica e migliori condizioni di vita. Lo fanno senza leader, senza capi, senza trascinatori. Osservando dal vivo le folle in questione, si capisce come la creatività porti alcuni dei manifestanti più intraprendenti ad avere un ruolo importante per un minuto, due, dieci al massimo, poi bisogna cambiare leader, bisogna sentire altre campane. I manifestanti insistono sull’appartenenza nazionale – un nuovo nazionalismo diffuso? –, e sul rifiuto di qualsiasi partito politico, vengono denunciate le carenze della politica politicante, vengono accusati anche singoli personaggi per la loro corruzione, ma di nuovi capi non se ne parla.

Ciò crea dei problemi soprattutto al potere politico, che non riesce ad individuare i capi delle rivolte, a isolarli, a cercare di smascherarli ed eventualmente di convincerli a scendere a compromessi. Ma ovviamente questa mancanza di leader può creare problemi agli stessi manifestanti, perché la “visione” alta delle cose e la direzione da prendere spesso diventano qualcosa di molto precario e non definito. Se quest’assenza di leader può essere un elemento positivo nella prima fase delle rivolte, se l’egualitarismo diventa il modo di essere della folla nell’inizio del movimento rivoluzionario, nei giorni seguenti la cosa può ritorcersi contro le stesse manifestazioni, perché effettivamente sorgono tanti capetti nessuno dei quali riesce a governare la folla, a darle un indirizzo preciso. Questo è quanto sostengono quasi tutti gli studiosi dei movimenti rivoluzionari.

Hong Kong, Cina, 8 novembre 2019.
Hong Kong, Cina, 8 novembre 2019.

Però la realtà di queste ultime manifestazioni sembra smentire questa convinzione assoluta degli studiosi. In piazza, in effetti, ci si resta per mesi e mesi (vedi i casi di Hong Kong, del Sudan e dell’Algeria soprattutto), senza che ancora emergano capi ben definiti. Altri studiosi assicurano che, senza leader, la rivoluzione rischia di cadere nelle mani dei provocatori, che portano il movimento verso la violenza o verso la demonizzazione di personaggi particolari, senza però mai riuscire a giungere alla realizzazione del proprio scopo: la caduta del regime. Così – si sostiene da parte degli studiosi – si deve entrare nella fase delle trattative, per giungere ad eleggere dei rappresentanti credibili che possano “trattare” con governi e potenti per arrivare a qualche risultato.

Algeria, 1 novembre 2019.
Algeria, 1 novembre 2019.

In particolare, nella cosiddetta “primavera araba” si è sostenuto che «una transizione democratica non può essere gestita da un singolo attore, ma deve essere fatta collettivamente con l’opposizione e, molto probabilmente, con i rappresentanti delle istituzioni statali», come osserva ad esempio Georges Fahmi, ricercatore presso la Chatham House. Questa mancanza di leader porterebbe a una situazione di vuoto pericolosa e senza apparente futuro: se come già notato da una parte i governi non sanno con chi prendersela, e quindi la folla diventa più difficile da gestire, nel contempo i governanti sono portati a prendersela con calma, a non dare risposte precise, a scegliere la via dell’enlisement, cioè dello spegnere poco a poco la rivolta. Manca precisione da una parte? Anche dall’altra si resta nel vago.

La situazione creatasi in Libano, ad esempio, sembra riprendere quella di opposizione tra una folla indecifrabile ma decisissima nel rifiuto del potere in auge, e un establishment che se la prende comoda, cercando formule politicanti per uscire dalla crisi, sperando che la folla si stanchi. Ma così non accade nei fatti. La rivoluzione continua, con sempre nuove forme: preghiere collettive, sit in davanti alle imprese municipalizzate, improvvise interruzioni del traffico, picnic nei luoghi frequentati dai ricchi… È una nuova forma di contestazione quella che sta nascendo, figlia dei social network ma anche dell’eccesso della personalizzazione della politica creata dal sistema mediatico negli anni finali del XX secolo e in quegli iniziali del XXI. Si torna alla politica, quindi, alla politica reale e non a quella fittizia dei tweet, si torna in piazza, ma senza sapere dove si possa veramente arrivare. Il mondo dei movimenti sociali oggi incuriosisce, stimola, butta per aria le consuetudini. Che si stiano partorendo nuove forme di governance?

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