Si incrociano a Cannesi labirinti dell’esistenza

Ha vinto il cinema povero, scarnificato e ridotto all’osso, quello agli antipodi delle guerre stellari e dei pingui colossal hollywoodiani ingozzati di effetti speciali che richiamano folle di fan sulla Croisette. Il cinema delle anime lacerate, dei drammi umani e dei dilemmi esistenziali. Ha vinto L’enfant (Belgio) di Jean-Pierre e Luc Dardenne, storia di un giovane balordo che, alla ricerca di soldi, non trova niente di meglio che vendersi il figlioletto di pochi mesi. Fedeli a un cinema pauperistico, radicale nel denunciare drammi di emarginazione, i fratelli Dardenne (già vincitori della Palma d’oro nel 1999 con Rosetta) continuano a puntare il loro obiettivo su miseri esseri ai margini della vita sociale, dai quali di primo istinto si preferirebbe distogliere lo sguardo, per scrutare con infinita pietà l’impasto di sofferenza, degrado e disperazione con cui convive un’umanità dolente. Il Gran premio della giuria è andato a Broken Flowers dell’americano Jim Jarmusch, interpretato da un ottimo Bill Murray. Anche qui una storia di paternità, ma che è l’esatto contrario di L’enfant, perché da una lettera anonima il protagonista scopre di avere un figlio di circa vent’anni. A questo punto Bill Murray si mette alla ricerca di tutte le sue ex, tentando così, attraverso la madre, di rintracciare anche quel figlio di cui aveva sempre ignorato l’esistenza. Film in cui prevalgono i toni della commedia, ma che non trascura il taglio sociologico mettendo in evidenza i problemi quotidiani dell’uomo medio, alle prese con il lavoro, il bilancio domestico, lo stress di una vita convulsa e affannosa. Il Premio per la regia (riconoscimento che sa un po’ di consolazione, ma una citazione nei Palmarès è sempre meglio di niente) è stato assegnato a Caché dell’austriaco Michael Haneke, film sul quale i francesi avevano puntato le loro speranze perché di produzione nazionale e interpretato da due star di casa come Daniel Auteuil e Juliette Binoche. Ma, nonostante Caché fosse il gran favorito del pronostico, la Francia, che da diciotto anni non riesce a centrare il bersaglio del trionfo pieno, dovrà ancora rinviare l’appuntamento con la Palma d’oro. Fedele a una precisa linea tematica, Michael Haneke mette in scena deviazioni comportamentali di un’umanità in preda a un profondo disordine, dove l’inconscio e il passato giocano un ruolo fondamentale. Perché la violenza contro gli altri (come in Funny Games), perché la violenza contro sé stessi (come in La pianista)? La risposta potrebbe trovarsi nella memoria dimenticata dell’Occidente, nelle sue omissioni e nei rimorsi che ne conseguono? Tommy Lee Jones ha vinto il Premio per il miglior attore con Le tre sepolture, film da lui diretto e interpretato, un western contemporaneo in cui si parla di riscatto da parte dell’America migliore, di onore e di rispetto per la dignità dell’uomo, ma anche dell’assurdità di ogni confine, sia geografico che esistenziale. Premiato anche per la sceneggiatura, firmata dal messicano Gulliermo Arriaga di Amores perros e 21 grammi. Miglior attrice l’israeliana Hanna Laslo, una delle interpreti di Free Zone di Amos Gitai, apologo sulle possibilità di pace in Medio Oriente e del ruolo che in questo processo possono giocare le donne. Si può rintracciare un fermento comune nel calendario della 58ª edizione? Probabilmente lo si può trovare nell’estremismo di un’avventura esistenziale spinta spesso oltre ogni limite, esasperata, irrazionale, sovente autodistruttiva, che esplora un sempre più diffuso fenomeno di disadattamento rovistando, a volte non senza compiacimento, negli angoli più oscuri della psiche. Ma dal Festival di Cannes 2005 è arrivata anche una lezione di etica. Cacciato dalla porta, il senso di colpa è rientrato dalla finestra e anche nel passaggio dal trascendente all’immanente, dalla religiosità alla secolarizzazione, la coscienza resta il fulcro di una ribellione al relativismo morale. In una sfilata di tutti i mali del mondo, lo sdoppiamento della personalità dell’uomo e l’ambiguità del suo comportamento (nucleo centrale di film come Last Days di Gus Van Sant, Manderlay di Lars von Trier e Una storia di violenza di David Cronenberg) si incarnano in un senso di colpa che non dà tregua tormentando di continuo la coscienza. La soluzione sembra venire, e non è la prima volta, da un film di Wim Wenders, Non bussare alla porta, metafora di una dimensione salvifica da cercare in un mondo diverso da quello in cui viviamo. Che Sam Shepard, attore di film western, si lascia alle spalle con tutte le sue falsità e ipocrisie per avventurarsi nell’altrove dello spirito.

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