Si chiude (male) l’anno di Marco Aurelio
Il 19° centenario di Marco Aurelio, nato nel 121 d.C., è stato trattato così male che peggio non si sarebbe potuto. Convegni vicini a zero, idem per libri, articoli e iniziative culturali. Per non parlare di Roma, dove tranne la campagna elettorale per il nuovo sindaco, ha regnato un assordante silenzio tra università, uditori, istituti storici, associazioni e quant’altro.
Ora che l’anno marciano sta finendo, cosa possiamo dire di attuale su questo grandissimo romano, unico scrittore-filosofo fra gli imperatori, con Giuliano l’Apostata? Ci provo con lo spunto di questi giorni, nientemeno che il Natale.
Sì, perché la moda di contestare-laicizzare-disprezzare il 25 dicembre cristiano nasce in fondo da una cattiva informazione e da una certa dose di pregiudizi. Non voglio offendere nessuno, ma è chiaro che quanto più estesa e profonda è la conoscenza di storia, teologia, cultura, arte, tradizione cristiana, tanto meno le feste, i riti, gli usi, il folklore religiosi possono destare l’insofferenza di qualcuno, mentre al contrario vengono visti per quello che realmente sono, cioè tra le espressioni più alte della cultura e dello spirito umano, portatrici di positività e di valori autentici per tutta l’umanità, per tutti quanti Dio ama, come dice il “nuovo” Gloria sulla scia di Lc 2,14.
Ma che c’entra Marco Aurelio in questo? Vediamo. La storia ha riconosciuto all’ultimo degli Antonini delle virtù somme, come statista e come uomo. Vedi la giustizia, l’onestà, la moderazione, l’empatia, la misericordia e così via. Eppure i libri di storia romana, storia del cristianesimo ecc. non solo annoverano questo imperatore fra i persecutori romani del cristianesimo ma, fonti alla mano, lo ricordano come uno dei più accesi, che infierì 15 anni e con particolare efferatezza sulla Chiesa di tutto l’impero romano.
Ci domandiamo. Come ha potuto un filosofo di tale portata, uno degli spiriti magni dell’antichità e anzi dell’umanità, capace di scrivere in un sublime capolavoro filosofico, i Pensieri, frasi come: «Lo specifico di una persona buona è amare… Chi è buono non ce l’ha con nessuno». Oppure: «Il modo migliore per difendersi da un nemico? Non comportarsi come lui». O ancora: «Ama, ma veramente, gli uomini con cui il destino ti ha unito», (e di perle simili è piena ogni pagina dei Pensieri).
Come può, dicevo, una mente così nobile e illuminata odiare e disprezzare una parte dei suoi simili fino a sterminarli per motivi religiosi?
La risposta ci riporta a quello che dicevamo prima sull’ignoranza e i pregiudizi come causa di critiche e censure che non avrebbero ragion d’essere. E questo discorso, udite udite, vale pure per Marco Aurelio. Che sapeva di tutto, con acume e profondità senza pari, ma del cristianesimo sapeva poco o nulla.
La prova? Eccola. È in Pensieri XI, 3, dove l’imperatore filosofo ci rivela tutto quello che sa della nuova religione venuta dall’Oriente. Parlando della nobiltà dell’anima quando è pronta al suo ultimo viaggio, precisa che «questa prontezza deve venire da un giudizio meditato e non deve essere il frutto di un combattimento alla leggera, come è il caso dei cristiani». È un passo, al contrario, «che va compiuto con ponderazione e serietà, in modo da persuadere anche gli altri senza diventare teatrali».
Questo è ciò che pensa, e che conosce, Marco Aurelio dei cristiani, sulla base di qualche racconto o commento frettoloso di questo o quel funzionario. Ed è chiaro che la scena che l’autore-imperatore ha presente, ma che molto probabilmente non avrà mai visto con i suoi occhi, è quella del processo e della condanna a morte dei martiri della nuova fede. Che non esita ad accusare di superficialità e di esibizionismo!
Ecco come possono portare lontano sulla via dell’ingiustizia e anche della violenza i pregiudizi, la disinformazione e la mancanza di obiettività. E perfino i grandissimi possono sgarrare. D’altronde, chi è senza peccato?