Si chiamava Heranush

La "vendetta dell'amore" di un'armena sopravvissuta al genocidio. La sua tragica e stupenda storia viene ora raccontata dalla nipote turca.
Gente

«Io non mi chiamo Seher, io mi chiamo Heranush. Io non sono turca, io sono armena… Un giorno sono venuti i gendarmi, e hanno ucciso gli uomini, li hanno sgozzati e gettati nel fiume. Noi donne con i bambini ci hanno mandati in esilio». Così alla nipote prediletta Fethiye l’anziana signora inizia a rivelare il segreto di una vita. Dapprima reticente, poi sempre più spedita nell’elencare nomi, episodi, dettagli che tornano a vivere dopo decenni di silenzio. È una confessione liberatoria che sconvolge la nipote, avvocato di fama impegnata nella lotta per i diritti umani. Sapere che nelle sue vene scorre anche sangue del popolo di cui non si deve parlare diventa per lei un pungolo a far conoscere la storia di questa donna fragile, ma dotata di una forza immensa.

 

Così è nato Heranush mia nonna (Alet Edizioni), il primo libro di Fethiye Cetin, dedicato alla memoria di una donna armena che a nove anni viene strappata con violenza alla sua vita felice in un villaggio dell’Anatolia – siamo nell’estate del 1915 – e costretta ad una marcia della morte verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Tuttavia la piccola Heranush conosce un destino diverso: sopravvivere all’eccidio di un intero popolo è possibile solo al prezzo di trasformarsi in qualcos’altro: altra religione, altra lingua, altra tradizione.

 

“I resti della spada” – così vengono popolarmente chiamate queste sventurate costrette a dimenticare la loro origine e identità – entrano a far parte di famiglie turche come mogli, concubine o serve. Ma lei, Heranush, non dimentica: adottata da un gendarme tra i più clementi, ne impara la lingua, diventando una muthedi (cioè una convertita); a sedici anni è sposa, poi madre, poi nonna riverita e obbedita. Nella sua nuova vita, degli orrori sofferti si vendica semplicemente amando: l’amore che le è stato negato lo riversa su figli e nipoti. Il suo segreto – la memoria tenace della sua identità, dei genitori e dei fratelli emigrati in America e degli altri parenti morti o dispersi – è un fiore lungamente innaffiato con lacrime. Ma sessant’anni dopo quegli eventi terribili, non vuol lasciare questa terra senza aver prima rivelato alla nipote la condizione sua e delle altre armene nascoste.

 

«Che lei perdoni le nostre colpe, che perdoni noi, voi, tutti», scoppia in singhiozzi Cetin nella moschea durante la preghiera funebre per la nonna defunta. Un appello che tuttavia si scontra col silenzio di chi ancora si ostina a rimuovere la realtà di un genocidio che solo nel 1985 è stato ufficialmente riconosciuto dall’Onu e dal Parlamento europeo. «Un eccezionale piccolo libro che è lo scarno, antiretorico resoconto di una vicenda incredibile, messa a fuoco con toccante semplicità»: così lo definisce nella presentazione Antonia Arslan, la prima a dar voce in Italia alla tragedia del popolo scomparso con La masseria delle allodole. All’autrice, in occasione di un suo viaggio a Roma, ho rivolto alcune domande.

 

Come mai proprio lei, tra le altre nipoti, è diventata depositaria del segreto di sua nonna?

«Lei aveva fortemente radicato dentro di sé il senso della giustizia, e il motivo per cui si è confidata con me è forse perché ha visto che anch’io, per le mie scelte e per i miei studi, ero fatta della stessa pasta. Anche se aveva cambiato nome, religione, identità, dentro di lei era sempre vivo un “no”, per via del quale diceva che le assomigliavo. Quando da piccola riportavo dei successi a scuola, soprattutto quando ha scoperto le mie capacità musicali, mi diceva con orgoglio: “Hai preso tutto da noi, dalle nostre parti”. Solo col passare degli anni, ho capito cosa volessero dire quelle parole. All’inizio lei non voleva entrare nei dettagli; ma io l’ho forzata a farlo: mi sono seduta di fronte a lei con carta e penna, e ho cominciato a farle domande su domande. Sentirla raccontare con tale ricchezza di particolari della sua infanzia lontana, a sessant’anni di distanza, è stata un’emozione unica. È stato come quando si stappa un profumo che a distanza di secoli torna a farsi sentire in un ambiente. In seguito ho scoperto che altre armene erano state capaci di ricostruirsi una vita, anche loro custodendo in silenzio la memoria della propria gente».

 

Erano le stesse donne con cui sua nonna si incontrava, facendo ritorno nel suo antico villaggio…

«Sì, quand’ero piccola lei mi accompagnava ad Habab durante il periodo pasquale; io passavo la mia giornata a giocare con gli altri bambini, mentre lei si appartava con delle amiche. Solo molto più tardi sono venuta a sapere che quelle donne che si scambiavano dolci tradizionali, parlando per ore ed ore, avevano in comune un passato tanto più doloroso in quanto avevano dovuto ricominciare negli stessi luoghi dove avevano perso tutto, casa ed affetti. E ciò senza mai poterlo confidare a figli e nipoti. Se io ho scritto questo libro è per essere voce non solo di mia nonna, ma anche di tante altre come lei».

 

Dopo la morte di Heranush, lei è riuscita a rintracciare i suoi parenti armeni in America. Ma che effetto ha fatto nella sua famiglia e fra le sue amicizie turche un libro come questo?

«I miei si sono divisi in due gruppi: uno mi ha sostenuto e continua a farlo tuttora, l’altro si è dissociato. Per quanto riguarda amici e conoscenti, tutti mi hanno incoraggiata».

 

E in Turchia, dove è diventato un best seller?

«Fino ad ora non mi è mai arrivato nessun segnale negativo. Oggi nel mio Paese ci sono giornalisti e intellettuali che lottano perché sia riconosciuta la verità. Da un recente sondaggio sembra che 12 milioni di turchi ammettano i fatti del 1915. Questo è già un grande passo avanti. Speriamo che il governo turco abbia il coraggio di accettare la verità facendo i conti con il suo passato».

 

Lei si sente in qualche modo ponte fra due popoli e due culture?

«Sento che Heranush è stata questo ponte, non tanto io. Questa storia in un modo o nell’altro ha fatto breccia in tanti cuori. Mi risulta che c’è chi la considera sua nonna sia tra i turchi, sia tra gli armeni della Turchia e sia tra quelli della diaspora. Certo, la sua è una testimonianza cruda, ma parla anche di amore, e per questo non è priva di speranza: quella che un giorno turchi ed armeni possano giungere ad una reciproca comprensione attraverso il riconoscimento della verità».

 

FETHIYE CETIN. Nata a Maden nel 1950, è uno dei nomi più noti in Turchia per il suo attivismo e l’impegno nella tutela dei diritti umani. È membro del Comitato esecutivo per la tutela dei diritti dell’uomo e portavoce dei diritti delle minoranze presso il tribunale di Istanbul, dove vive. Dopo il colpo di Stato del 1980, ha scontato quattro anni di prigione ad Ankara, colpevole solo delle proprie idee e, una volta uscita, ha intrapreso la carriera di avvocato. Ha difeso in tribunale Hrant Dink, il giornalista turco armeno direttore di Agos, accusato di insulto all’identità nazionale turca e assassinato a Istanbul nel gennaio del 2007. Fiera delle proprie radici, Fethiye Cetin lotta affinché la dignità del popolo armeno sia finalmente riconosciuta. In un anno il suo libro ha avuto in Turchia sette edizioni, con 12 mila copie vendute.

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