Shoah, anche il cinema ricorda
Sono numerosi, purtroppo e per fortuna, i film sulla Shoah. Purtroppo perché raccontano qualcosa di mostruoso partendo dalla storia, qualcosa di realmente, tragicamente avvenuto; per fortuna perché l’essere umano, capace di un simile crimine, sa prendere coscienza della potenziale relazione che può instaurare col male, e ricordarsi di come tale pericolo sia sempre in agguato. E quindi, attraverso la memoria che passa (anche) per l’arte, trova un strumento per (provare a) tenersene lontano.
Ma ogni volta che il cinema, e più in generale l’immagine, e ancor più in generale tutta l’arte, tentano di entrare in contatto con la Shoah, devono sempre fare i conti con certi problemi di (ir)rappresentabilità di fronte a questo momento così atroce della storia umana. Claude Lanzmann, per esempio, di professione regista, e prima di lui Adorno, filosofo, hanno sostenuto che tale orrore è irrappresentabile, e che non ha senso ricostruirlo per immagini; che è inutile usare l’arte, che è svilente per l’arte stessa verificare la propria impotenza di fronte a tale orrore. Per questo il potente film di Lanzmann, Shoah, del 1985, è un non film, nel senso che è un continuo accumulo di testimonianze dirette. Solo racconti reali, senza immagini di repertorio; solo parole – anche quelle di ex nazisti – e i campi come erano nel 1985, anno del film.
Non tutti la pensano allo stesso modo: Godard, per esempio, diceva che il cinema, seppur ferito dalle immagini dei campi, ha il dovere di trovare la via della opportuna rappresentabilità. Fatto sta che la settima arte è riuscita diverse volte a parlare di Olocausto, ricostruendo con film diversi la deportazione e i lager (Schindler’s list di Spielberg e La vita è bella di Benigni tra i più noti) o la terribile realtà delle persecuzione e il genocidio (Il pianista di Polanski, Arrivederci ragazzi di Malle, Il giardino dei Finzi Contini di De Sica). Se ne potrebbero aggiungere molti altri, decine e decine, e altri ancora, molto probabilmente, e giustamente, se ne aggiungeranno.
Anche questo 2018 porta il suo film sulla memoria dell’olocausto: Un sacchetto di biglie di Christian Duguay, che racconta di due fratellini ebrei che partono da una Parigi occupata dai nazisti verso il più sicuro Sud della Francia. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Joseph Joffo, del 1973, divenuto ormai un vero classico per ragazzi in Francia. Esisteva già una versione cinematografica di Jaques Doillon, del 1975, ma questa recente ha tra i suoi pregi anche quello di smontare lo stereotipo di una chiesa cattolica indifferente alla tragedia degli ebrei.
Un discreto film, in sostanza, Un sacchetto di biglie: in equilibrio tra storia e avventura. Un film per tutti, ma che attraverso i ragazzi protagonisti può arrivare facilmente anche ai nostri figli. Certo, va rammentato che i film su tale argomento corrono il rischio di diventare puramente merce: oggetti di consumo in un determinato periodo dell’anno; come del resto la materia stessa della Shoah può arrivare ad essere.
Per questo, volendo chiudere ricordando un paio di titoli recenti (e molto importanti) sul tema del genocidio degli ebrei. Il primo è un documentario dal titolo Austerlitz, del regista Sergey Losnitza: non fa altro che mostrare l’atteggiamento di molti turisti che in una normale giornata visitano il museo di Sachsenhausen all’interno di un campo di concentramento. Ebbene, nessuno di loro ha il volto sofferente o particolarmente coinvolto. Molti sono intenti a scattare foto e a mettersi in posa: tutta l’attenzione è al tempo presente, al nostro piccolo orticello e la memoria, anche se apparentemente omaggiata, di fatto è completamente svuotata di senso. Un film con uno spunto di partenza potente e una domanda di fondo sottile e inquietante, che tutti dobbiamo porci: quanto realmente siamo consapevoli e in contatto con quel che davvero è accaduto?
In forte contrasto con la superficialità di Austerlitz è un altro film del 2016, Il figlio di Saul (nella foto), del regista ungherese László Nemes, vincitore del Gran Prix della giuria a Cannes e del premio Oscar come miglior film straniero. Fa sua, per certi versi, la lezione di Lanzmann, nel senso che lo sfondo, il contesto del campo di concentramento, è sempre sfocato, non a fuoco, perché quell’orrore è impossibile da comprendere e da guardare. Eppure il protagonista, uno di quei sonderkommando (deportati che dovevano collaborare con i nazisti) prigionieri ebrei che assistevano gli aguzzini per alcuni mesi, prima di morire loro stessi, ci conduce all’inferno.
Saul, questo il suo nome, crede di riconoscere suo figlio tra le vittime e vuole seppellirlo, cercando disperatamente un rabbino che lo aiuti. Così inizia un viaggio tra le vittime e i carnefici, alla ricerca di una via di uscita dalla barbarie. È un viaggio credibile e stordente, capace di riportare a galla il sapore dell’incubo, e in questo modo il Figlio di Saul si sposta verso posizioni più godardiane: quelle per cui il cinema ha il compito, arduo, di misurarsi con la Shoah.