Sharon, politico controverso e sorprendente

Alla sua figura sono legate le stragi dei campi palestinesi di Sabra e Chatila, lo scatenarsi della seconda Intifada, ma anche il ritiro forzato dei coloni dalla Striscia di Gaza, quasi un monito a ripensare il progetto dello Stato di Israele: non è il sangue o l'umiliazione del nemico la garanzia della pace e della sicurezza, ma il rispetto del diritto. Una testimonianza
La bara del primo ministro israeliano Ariel Sharon
La morte di Sharon, dopo sette anni di agonia, permette una riflessione pacata e serena sulla vicenda storica di questo personaggio, sicuramente controverso, ma anche capace di gesti politicamente sorprendenti e innovativi.

Io ho conosciuto indirettamente Sharon all'inizio della seconda Intifada, accesa dalla sua passeggiata sulla spianata delle moschee il 28 settembre del Duemila. Accompagnato dalla scorta armata entrò in questo luogo sacro ai musulmani e tradizionalmente controllato dai palestinesi, a ribadire una presa di potere israeliana anche su questo territorio. Da lì sono iniziati anni drammatici, con scontri militari (basti ricordare l'occupazione della basilica di Betlemme), tempi di sosta e di umiliazione ai chek point, veri e propri scontri militari. Ricordiamo tutti Arafat asserragliato nella Mokata a Ramallah.

L'ho visto per la prima volta di persona nel 2003 per gli ottant'anni di Simon Peres. Sharon parlò in una sala piena e attenta con i toni del combattente sicuro dei suoi obiettivi e successi. Arafat era il suo nemico mortale. Io ero andato per firmare un progetto di cooperazione, chiamato "Saving children", che prevedeva la cura dei bambini palestinesi, non curabili negli ospedali palestinesi. La loro permanenza negli ospedali israeliani sarebbe stata sostenuta dal nostro progetto: verrebbe da dire l'esatto contrario di quello che stava facendo Sharon. Eppure, da capo indiscusso del governo, capì che la guerra con i palestinesi non poteva durare in eterno e avviò l'uscita dei coloni da Gaza.

 

Dopo questi gesti lasciò il Likud di Netanyahu e fondò Kadima con Ehud Olmert e Peres, un partito che nasceva proprio per siglare l'accordo con i palestinesi. Il significato di quei gesti rendeva atto ad una prospettiva: il grande Israele era fallito e si doveva costruire un piccolo Israele, democratico ed ebraico, l'esatto contrario di quello che poi ha fatto Netanyahu.

Dunque un attimo prima che l'agonia iniziasse, da grande guida riconosciuta nel Paese, aveva indicato la strada di un grande accordo con i palestinesi, sulla base del principio di due popoli e due Stati. Non era un pacifista, ma aveva visione e questa visione apriva la strada a una possibile soluzione giusta. Ritirò con grande determinazione i coloni da Gaza, ma poi le forze vennero meno e Olmert, che ne prese l'eredità, non ebbe la forza di condurre in porto l'operazione, per vicende giudiziarie probabilmente gestite dai servizi. E Gaza, dopo il ritiro dei coloni, è finita in mano ad Hamas e oggi appartiene al conflitto intrapalestinese, con conseguenze non facilmente risolvibili nel breve periodo.

Oggi Netanyahu porta il Paese in un'altra direzione, quella del grande Israele, che per altro è messo a repentaglio dalla sfida demografica. Un unico Stato costringerebbe Israele a non essere democratico, per non cadere in mano di una maggioranza araba numericamente più consistente. La politica degli insediamenti è lo strumento operativo di questo disegno, a mio giudizio straordinariamente rischioso.

Per altro dobbiamo dire che la morte di Sharon e il poco rilievo dato sottolineano anche il fatto che il Medio Oriente sta uscendo dalla grande agenda della politica internazionale, ma mai come oggi c'è bisogno di un accordo e di un impegno di tutti, perché israeliani e palestinesi ritrovino la via del dialogo e dell'incontro e si arrivi a un grande accordo, che non guardi alle piccole vicende di ogni giorno ma al senso della storia e del tempo.

Una cosa Sharon non aveva capito nei giorni della seconda Intifada: non è attraverso l'umiliazione del nemico che si costruisce futuro. Al contrario, solo rispettando i diritti di chi ti sta di fronte è possibile aprire porte insperate e insperabili. Penso alla politica degli assassinii mirati, del muro, della distruzione delle case. Gesti che non producevano sicurezza, ma alimentavano paura.

Speriamo che lo comprendano i leader di oggi e speriamo che i due popoli siano più coraggiosi e lungimiranti dei loro leader politici e impongano la via della pace, del dialogo e dell'incontro e non della sopraffazione di futuro che la politica degli insediamenti comporta.

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