Sharman, un magnifico Lorenzo de’ Medici
Campanili, cipressi, marmi e colline erbose. Facciate, piazze, pitture e pure qualche rudere romano, poetico al tramonto, ad affiancare certe galoppate da Firenze a Roma. In questo spazio splendidamente italiano, tutto da esportazione per linee, fulgore e colori, si agitano la politica e gli amori tra le dame e i cavalieri. Un paesaggio geografico e architettonico, certo, ma anche umano e dunque aggredito da tempeste i cui mandanti si chiamano potere e denaro. Che pure le armi e il sangue impongono all’appello, quando le parole non bastano a tenere a bada le conseguenze peggiori che i due mostri – quasi siamesi – sanno scatenare. Tutto questo ribolle attraente, abbondante, se vuoi scolastico, didascalico, ma anche ben incollato e fluente, confezionato a mestiere, nella seconda stagione de I medici, tutta dedicata a Lorenzo il Magnifico, per uno sfavillante omaggio – senza se e senza ma – alla sua statuaria figura.
Bello fuori, in questa fiction Rai dal respiro internazionale, con il viso e i muscoli dell’inglese Daniel Sharman. E bello dentro, perché concentrato raro di lealtà e altruismo. Un democratico pacifista, col «peso della coscienza», e poi lungimirante, colto e sportivo, onesto, anche se innamorato di due donne: Lucrezia Ardinghelli Donati, fin da ragazzino – con grande passione – e Clarice Orsini, più sobria e spirituale, bella e intelligente. Diverse e affascinanti entrambe, nella loro complementarietà funzionale alla narrazione.
Innamorato, soprattutto, il nostro Lorenzo, con lucida passione della sua città: «per il bene di Firenze», ripete quando situazioni complicate, drammatiche e delicatissime non gli danno pace. Appena sistema una cosa, del resto, un’altra se ne rompe, e da ogni scoppio prende forza la seconda stagione de I Medici, che costruisce i suoi schemi narrativi tra un riparti e un ricuci del Magnifico, tra un galoppa e un vai a parlare dell’aitante e astuto eroe, mai felice di sguainare la spada, anche se saprebbe usarla molto bene.
Non s’arrende mai, il giovane e instancabile cavalcatore, il velocista della soluzione e il sognatore politico. Un compendio notevole di qualità umane, insomma, e questa perfetta sinergia di corpo e pensiero quasi sormonta, addirittura, la gigantesca fama del personaggio storico. «Un re senza corona», lo definisce sua moglie Clarice, reso ancor più luminoso e inarrivabile dalla cupezza del suo rabbioso antagonista: quel Jacopo De Pazzi interpretato da Sean Bean – già Eddard Stark in Il trono di Spade – con cui costantemente lotta. È il suo orrribile nemico, guerrafondaio, tentatore rabbioso ed accecato dall’odio, mentre gli altri priori e i ricchi fiorentini assistono al combattimento impari tra il fuoriclasse capace di magie ed un cattivo poco sfumato, che finisce puntualmente per prenderle, fino a trasformare le sconfitte in violenza politica brutale e intrisa di sangue. Vedasi, soprattutto, la congiura de Pazzi, del 26 aprile 1478, con cui si chiude la stagione e con la quale viene ucciso Giuliano De Medici, il fratello di Lorenzo, in Santa Maria del Fiore.
Sono così opposti, dunque, così distanti, il Lorenzo e lo Jacopo della serie prodotta da Lux Vide – andata in onda in 4 puntate su Rai Uno dal 23 ottobre a martedì scorso, 13 novembre – che non alimentano a vicenda quell’umana complessità di cui si avverte un pochino la mancanza: quell’odore forte della vita addosso che ne ispessirebbe un po’ il ritratto. E quindi il giochino dell’identificazione con il buono e del rifiuto del cattivo è da ragazzi, e funziona molto bene solleticando di continuo l’emotività. Al netto di ciò, i duelli tra l’eroe e il suo avversario si combattono molto spesso sul pavimento della storia, anche se non tutti i tasselli del mosaico sono autentici, e sopra la superficie viene a volte passata una mano lucidatrice di romanzo.
Il rigore filologico, insomma, non è integrale, ma nel complesso è un rapporto abbondantemente sufficiente: i grandi eventi sono là, la guerra di Volterra, l’assedio di Città di Castello, il braccio di ferro tra Lorenzo e il Papa per Imola, e l’uccisione di Galeazzo Sforza. Sono sempre causa o conseguenza dei duelli tra gli antagonisti, e sono spiegati con un misto di rapidità, chiarezza e semplificazione. Lasciando sempre un certo spazio, per molti versi obbligato, ai baci appassionati delle coppie protagoniste e di quelle comprimarie. Ce ne sono diverse: Giuliano De’ Medici e Simonetta Vespucci; Bianca De’ Medici – sorella di Giuliano – e Guglielmo De’ Pazzi. E poi Novella Foscari e quel Francesco De’ Pazzi – nipote di Jacopo – che pugnala mortalmente, nella puntata che chiude la stagione, Giuliano nella basilica di Santa Maria del Fiore.
A conti fatti, comunque, nella seconda stagione de I medici, dentro la fotografia smaltata e intensa, tra le note avvolgenti di Paolo Buonvino e le cartoline mozzafiato sullo sfondo, oltre certi sguardi e tagli di abito che rimandano più alla modernità che al Rinascimento, si respira anche il desiderio di sintetizzare didatticamente i primi anni di Lorenzo De Medici alla guida di Firenze, e come era composto il potere, allora, nella penisola italica. E poi, volendo, che fa sempre bene, si può compiere, vedendo questa serie che intriga e coinvolge per come è studiata e curata, un ripasso di quanto la sete di potere e di denaro siano mali antichi dell’essere umano, e fomentati dal sentimento dell’odio siano capaci di penetrare ogni sua stagione, anche quelle considerate le più luminose, iniettandovi morte e sofferenza. È un nostro limite da cui non possiamo mai distrarci. Ce lo insegna la storia. Anche quella più gloriosa.