Shanghai nel futuro Fiat?
Speriamo bene! Assieme alla Mole Antonelliana, al Museo Egizio, anche la Fiat, la Pininfarina, la Bertone. Le aziende dell’auto entrano per la prima volta nel circuito turistico che le agenzie propongono ai visitatori del capoluogo piemontese. L’iniziativa è di Turismo Torino, l’ente che promuove l’immagine della città. In programma per il 15 marzo è la visita alle linee di montaggio di Mirafiori, stabilimento ormai inutilizzato per il 65 per cento delle sue capacità. Ci auguriamo che non si trasformi in un ulteriore museo, commenta la signora Anna. Lei, torinese, a 43 anni, prova a rifarsi un futuro, dopo aver vissuto per vent’anni all’ombra della casa automobilistica torinese, in quella costellazione di fornitori della Real Casa Fiat che si chiama indotto. Con la crisi, c’è chi, tra le aziende, è stata capace di puntare sui mercati internazionali e chi, invece, rimasto nell’orbita Fiat, ha finito per tirare le cuoia. Come l’azienda della signora. E Anna, un marito in mobilità e due figli da crescere, ha sfidato i dubbi di tanti, comprando una licenza di tassista. Da tre mesi scarrozza clienti per dieci ore al giorno (ho il mutuo ) tentando di imparare in fretta le tremila vie della città. Anche la Fiat è chiamata a rilanciarsi, ora che sono stati sciolti i vincoli con la General Motors. Subito dopo il divorzio, il presidente Luca di Montezemolo ha invitato gli italiani dalle ultime pagine dei quotidiani acquistate come pubblicità a tifare Fiat. Chiede uno scatto d’orgoglio per potercela fare. Qui a Torino c’è soddisfazione per la piena libertà ritrovata, ma niente eccessi d’entusiasmo. Sarà per la tradizionale sobrietà del carattere sabaudo, o forse per le speranze riposte nelle imminenti Olimpiadi invernali, oppure per il disagio dovuto ai grandi lavori di ammodernamento della città che congestionano la viabilità, ma certo è che una rondine non fa primavera. E i due miliardi di dollari pagati dalla Gm alla Fiat non bastano a rasserenare del tutto i molti torinesi. Lello Barbera è in Fiat da 33 anni. A Rivalta, dopo un lungo periodo a Mirafiori, lavora con i ritmi della crisi: un mese sì e poi uno o due di cassa integrazione. Noi operai non ci crediamo più. Chi può, va via. Mentre un tempo a tutti dispiaceva lasciare lo stabilimento. La gente è giù di morale perché non si vedono nuovi modelli all’orizzonte. Tanti si chiedono: se ci mandano via, chi ci prende?. Eppure un tempo la Fiat significava sicurezza. Adesso tanta gente convive con l’incertezza – fa presente Clara Bertolino, che insegna statistica alla facoltà di architettura del Politecnico – e nessuno è immune dai problemi legati al fatto di doversi reinventare non solo un futuro lavorativo ma anche la vita . Alla fine degli anni Ottanta sembrò imminente l’accordo con Toyota, tanto da ridefinire scherzosamente l’acronimo Fiat in Fabbrica italiana automobili Toyota. Ma poi non se ne fece di nulla. Altrettanto accadde, successivamente, con la Mercedes. Poi nel 2000 il sodalizio con Gm. Non piaceva passare agli americani – ammette Clem Fritschi, imprenditore nel settore delle macchine utensili -, ma adesso c’è il timore di non farcela da soli. La crisi, secondo me, si è accentuata con la morte di Giovanni Agnelli. Attorno al feretro dell’Avvocato, in quel gennaio 2003, davanti all’imponente manifestazione pubblica d’affetto dei concittadini, la famiglia Agnelli sentenziò: con l’auto siamo nati, all’auto intendiamo tornare. Da allora, anche per far fronte alle enormi esigenze di liquidità del gruppo, sono state vendute aziende e partecipazioni azionarie in settori non più strategici al rinnovato impegno per le quattro ruote. Cinquanta anni fa, il 12 marzo 1955, faceva il suo debutto la mitica Fiat 600. Motore quattro cilindri sistemato in coda, velocità massima 95 orari, 590 mila lire il prezzo (50 mila lire era il salario di un operaio), fu l’utilitaria che dette avvio alla motorizzazione di massa. Costruita fino al 1970, raggiunse i 4 milioni d’esemplari. Un modello vincente che servirebbe anche adesso. Perché la situazione della Fiat resta seria. E i segnali dell’ultimo periodo non invitano all’ottimismo. Sono stati annunciati cinque mesi di cassa integrazione nello stabilimento di Termini Imerese, a partire dal 21 marzo, per la riconversione degli impianti. Mirafiori subirà uno stop lungo otto settimane, mentre i 1.400 dipendenti di Termoli saranno in cassa integrazione dal 14 al 20 marzo. Per quanto riguarda invece le vendite delle auto, il 2004 ha registrato una tenuta del marchio Fiat in Italia (463 mila vetture, +0,8), un incremento di Lancia (95 mila, +9,5) e una consistente contrazione dell’Alfa Romeo (oltre 75 mila, -6,9). La quota di mercato, sia interno, che internazionale, si è ridotta ma è salita la redditività. Insomma, si vende meno ma non più in perdita. Ancora in calo le esportazioni. E non c’entra l’euro forte. In Europa, il gruppo Fiat è passato dal 13 per cento del 2000 al 7 dello scorso anno, con evidenti riflessi sulla bilancia commerciale, per la prima volta in passivo dal 1992. Si esportano poche auto italiane, se ne importano molte francesi e tedesche. Solo grazie ai buoni risultati dei veicoli industriali e delle macchine agricole, le perdite del gruppo Fiat – dove l’auto pesa per il 40 per cento sul fatturato totale – sono passate da 4,3 miliardi del 2002 all’1,2 miliardi nei primi nove mesi dello scorso anno. I debiti ammontano a 8 miliardi di euro, ora ridotti a 6,5 per l’assegno della General Motors. Si prospetta la cessione della quota Italenergia, intorno al miliardo, ma l’esposizione complessiva resta preoccupante. In aggiunta, il prossimo 16 settembre scade il prestito bancario di 3 miliar- di di euro, e nessuno crede che possa essere onorato. Quel che manca in Fiat è infatti proprio la liquidità, quella che permetterebbe consistenti investimenti nel settore auto. Oggi la casa torinese, da sola, non può reggere sui mercati internazionali. È troppo piccola: ha volumi di produzione (1,7 milioni di vetture) bassi per contenere i costi e reperire gli investimenti necessari per strutture e modelli, ricerca e innovazione. Piccola, dunque, e anche debole, al momento. Può salvarsi così com’è, con tutti i suoi stabilimenti e tutti i suoi dipendenti? La domanda è ricorrente in questo frangente. Montezemolo fa professione di ottimismo, cercando di valorizzare tutte le opportunità del momento e motivando la dirigenza Fiat, che ha visto la rimozione dell’amministratore delegato Fiat, l’austriaco Herbert Demel, e quello Maserati, il tedesco Martin Leach. Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Spa, ha impegnato sé stesso mettendosi al volante di Fiat Auto, come primo responsabile. La decisione manifesta quanto sia decisivo il momento e improrogabile la sfida. Su questa prospettiva si gioca il futuro e la credibilità del nuovo gruppo dirigente e della Fiat. E, probabilmente, anche di buona parte della realtà industriale italiana, in forte declino. Se infatti la Fiat non dovesse farcela – ha scritto l’esperto Giuseppe Turani -, sarebbero dolori non solo per Torino, ma per tutti, visto il peso (anche simbolico) che la Fiat ha per l’economia italiana. Nel settore auto, a livello mondiale, esistono impianti in grado di produrre 100 auto, mentre la richiesta del mercati arriva solo a 60. È ciò che si definisce eccesso di capacità produttiva, e sta a significare che nessuna grande azienda ha bisogno degli stabilimenti Fiat. Puntare su nuovi modelli resta perciò un fattore imprescindibile. Entro il 2006 sono previsti il lancio di sette nuovi modelli e di altrettante auto rivisitate. Le prime novità che vedremo sono la nuova Fiat Croma (da giugno in vendita), l’Alfa Romeo 159 (in sostituzione della berlina 156) e il coupé supersportivo Brera, disponibili da settembre, mentre a novembre sarà commercializzata la nuova Punto. Il guaio è che in Fiat negli ultimi dieci anni non si è investito nell’auto, si sono accumulati ritardi e infelici sono state alcune decisioni, come quelle di rifiutare la Matiz creata da Giugiaro, la prima delle piccole quattro porte, che ha fatto la fortuna della Daewoo, o di abbandonare il mondiale rally, formidabili vetrina e banco di prova per la produzione di serie. Grida vendetta anche la tardiva uscita di Fiat Idea e Lancia Musa, piccoli monovolume, quando modelli concorrenti come Meriva e Agila sono sul mercato già da qualche anno. Anche il settore commerciale ha gravi carenze. Pessima gestione – commenta un dirigente di Fiat Ricambi, che chiede l’anonimato -. L’avvicendamento della dirigenza e delle relative politiche ha creato un sacco di problemi ai clienti. Difficilmente torneranno a tifare Fiat. Per due anni e mezzo nessuno ha più pensato alla funzionalità interna. E non si può immaginare di restare sul mercato, anche solo quello italiano, quando sono biblici i tempi di consegna di una Lancia Musa o una Panda 4×4. Tornando alla strategia complessiva, esperti e studiosi dubitano dell’efficacia del polo sportivo o del lusso che dovrebbe nascere con Alfa Romeo e Maserati. Invitano piuttosto a stringere in tempi rapidi intese e accordi in Europa e altrove per dar vita a collaborazioni mirate a creare un nuovo modello, inventare un certo tipo di motore, aprire piste nell’innovazione. Come potenziale alleato, la Peugeot- Citroen è tra i più citati. Già collabora con Fiat nei monovolume e nei veicoli commerciali leggeri, mentre si sta studiando una terza intesa in Turchia. Guardando oltre oceano, va detto che i giapponesi hanno già investito molto in Europa, mentre gli americani sono in difficoltà. La pista più credibile sta diventando quella orientale. Le ipotesi più recenti indicano la Cina, e soprattutto Shanghai. Qui ha sede il colosso Saic, che è alla ricerca di uno sbocco nel Vecchio continente. Ha avviato rapporti con la Rover in Inghilterra, ma intanto con Torino ha siglato un accordo nei veicoli commerciali. Una Fiat di giallo vestita potrebbe piacere? L’alternativa rischiosa è quella di finire nell’elenco dei musei cittadini. IL FUTURO È IBRIDO Il fatto che la General Motors abbia preferito pagare due miliardi di dollari per essere liberata dall’obbligo di acquistare la Fiat Auto e di farsi così carico dei suoi 8 miliardi di debiti, la dice lunga sulla effettiva situazione della società. Per troppi anni la casa torinese non ha investito in ricerca e soprattutto non ha saputo dare di sé un’immagine di buona qualità, come invece sono state capaci di fare altre aziende, offrendo per le loro macchine garanzie totali di tre se non di cinque anni. Adesso la Fiat è in ritardo, ed anche nell’innovazione potrebbe aver intrapreso strade magari molto promettenti, ma che non sono in grado di dare risultati immediati. È il caso della macchina ibrida, che, in un mondo con il petrolio sempre più caro, è indubbiamente la macchina del domani, nelle sue versioni più o meno economiche o lussuose. Strategie per il futuro? Ad esempio, acquisire da chi le ha sviluppate per le macchine ibride tecnologie già funzionanti, rinunciando ad esse re originali ma in ritardo: non sarebbe una vergogna, lo ha già fatto la General Motor, siglando un accordo di licenza con la Toyota per la tecnologia che quella società ha sviluppato con successo da tempo. Oggi la Toyota Prius, il primo modello disponibile di macchina ibrida – azionata cioè da un motore a benzina con in parallelo un motore elettrico -, è stata eletta Auto dell’anno. Il complesso dei due motori viene regolato da un sofisticato software inserito nel computer della macchina, che permette notevolissimi risparmi di carburante. Personalmente non credo molto invece in risultati concreti dalla ricerca nel settore delle macchine all’idrogeno. La loro realizzazione e il loro utilizzo a prezzi economici sono molto distanti nel tempo, perché manca ancora un sistema efficiente di stoccaggio dell’idrogeno sulla macchina e, soprattutto, una rete di impianti di distribuzione di idrogeno. Inoltre, non è detto che complessivamente l’idrogeno, che verrebbe sempre prodotto dal petrolio, offrirebbe un impatto ambientale inferiore a quello possibile adottando le macchine ibride. La Fiat potrebbe anche offrire un maggior numero di modelli funzionanti a metano, il carburante che oggi offre il minimo impatto ambientale. In questo caso lo stato potrebbe intervenire senza infrangere regole europee, agevolando la costruzione di nuovi impianti di distribuzione del metano, la cui mancanza è la causa della scarsa diffusione di questo tipo di macchine, oggi decisamente le più risparmiose. IL COMUNE E LA CITTÀ FARE RETE TRA ENTI LOCALI E FIAT A Mirafiori la manodopera si è ridotta nell’arco di 20 anni del 75 per cento.Torino, con la sua area metropolitana, è stata capace di assorbire una così rilevante fuoriuscita Il più grande impatto l’ha, dunque, già superato. Oggi, il problema è stabilire insieme gli obiettivi verso i quali muoversi. E questa definizione potrà nascere solo da un dialogo tra gli enti locali e la proprietà, sapendo che questo ragionamento viene fatto sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini. Mauro Marino, presidente del Consiglio comunale del capoluogo piemontese dal 1997, segue con particolare sensibilità il nuovo capitolo del lungo intreccio tra azienda e comunità civile. La regione è guidata dal centro-destra, provincia e comune dal centro-sinistra. Sul tema Fiat c’è qualche sintonia, pensando anche a possibili futuri interventi? Sono in corso scambi di opinioni che ravvisano una diffusa sensibilità comune. Su temi come questi sarebbe sciocco operare diversificazioni basate su centro-destra e centro-sinistra. Questo è un problema che riguarda non solo la città, ma anche la regione e la nazione. Vale la pena, perciò, dimostrare di essere in sintonia e capaci di fare rete . È un problema di rilevanza nazionale. Ma non c’è il rischio che l’amministrazione torinese spinga per privilegiare gli investimenti su Mirafiori piuttosto che su Termini Imerese? È un tema che abbiamo affrontato come consiglio comunale. Non ha senso scatenare una guerra tra poveri. Piuttosto, si tratta di salvaguardare una vocazione torinese ma non a discapito di altre realtà. E questo apre la riflessione sul futuro di Torino. Un futuro con o senza Fiat? Vede, subito dopo l’unità d’Italia, Torino perde il ruolo di capitale, quindi centro di servizi, ma crea le condizioni per sviluppare l’industria futura. Adesso ci troviamo nella condizione speculare, ma inversa: Torino, città industriale, non può più essere vincolata solo all’industria ed è costretta a progettare un futuro nei servizi, senza però prescindere dall’industria. Ecco l’impegno, tra il resto, nei poli di ricerca, nelle tecnologie avanzate, nelle frontiere dell’innovazione, attenti anche alla riconversione delle strutture olimpiche per capire la loro successiva destinazione.