Shakespeare, la dodicesima notte degli equivoci

È uno dei testi più belli del Bardo, che contiene stili e registri vari, dal dramma alla farsa, dalla commedia sentimentale alle gag dei comici, alle malinconie dettate dall’amore e dalla solitudine
Un momento dello spettacolo

Tutto si svolge nell’Illiria, l’indeterminato territorio dove Shakespeare fa approdare i suoi protagonisti scampati a un naufragio. La fanciulla Viola, sopravvissuta ad esso, travestita da maschietto col nome di Cesario, si pone come paggio al servizio del Duca Orsino innamorandosi di lui. Questi spasima per la nobildonna Olivia e le manda ardenti messaggi per mezzo di Cesario, del quale si invaghisce perdutamente Olivia. Sarebbe già abbastanza. E invece ce n’è ancora. Viola ha un fratello gemello, Sebastiano, dato per disperso durante una tempesta sul mare: quando l’uno e l’altra si ritrovano, tutti gli equivoci sono risolti.

 

Ma in mezzo c’è dell’altro. C’è un personaggio complesso: Malvoglio, ovvero il maggiordomo di Olivia, vanaglorioso, pieno di boria e di malinconia, grottesco innamorato della padrona, bersaglio di una burla ordita da un paio di buffoni, uno dei quali, tanto per complicare la storia, si trova perfino a duellare con Viola-Cesario. Alla trama principale è affiancata, come si evince e come spesso accade in Shakespeare, una sottotrama buffonesca, con alcuni gaudenti falstaffiani che beffano il maggiordomo troppo severo mettendo in luce la futilità della passione. Diversamente dal solito, però, questa seconda trama è ricchissima di episodi, quasi più estesa della prima, e rischia talvolta di contagiarla, con finti duelli e altre buffonerie; per cui è difficile dire di che cosa parli davvero questa commedia degli equivoci, fra le più eseguite di Shakespeare e fra le meno comprese.

 

Carlo Cecchi, regista di questa edizione dello Stabile delle Marche, l’ha affrontata con il suo caratteristico humor “serioso” riservandosi il ruolo, riuscitissimo, del servo Malvoglio, coi suoi irresistibili passetti e il lieve balbettio. Scenicamente lascia vuoto il palcoscenico con solo una pedana circolare girevole inducendo i suoi attori a muoversi anche stando fermi, e, per restituire la dimensione musicale del testo che comprende delle canzoni, ha messo in campo due musicisti.

 

Manca però l’idea di fondo, quella capace di trasformare una successione di scene in un’architettura, in una campata di senso; e così anche le scene più azzeccate (per esempio quella famosa di Malvoglio spiato dai tre “congiurati” mentre legge la falsa lettera d’amore della sua padrona) rimangono in qualche modo avulse da un insieme che stenta a concatenarsi e a prendere forma. La regia cerca di inseguire gli intrighi di un’umanità incerta fra stupore e derisione, lo scriteriato abbandonarsi delle vittime predestinate alla beffa più atroce, ma non giunge a essere credibile e incisiva per la recitazione molto accademica di quasi tutti gli attori la cui interpretazione non restituisce verità a quel che gioco garbato sul travestitismo che Shakespeare ha trattato con levità sospesa tra inquieto vitalismo e cupo incombere della morte in un’atmosfera onirica.

 

“La dodicesima notte”, di William Shakespeare, traduzione di Patrizia Cavalli, con e regia Carlo Cecchi, con Daniela Piperno, Vincenzo Ferrera, Eugenia Costantini, Dario Iubatti, Barbara Ronchi, Remo Stella, Loris Fabiani, Federico Brugnone, Davide Giordano, Rino Marino, Giuliano Scarpinato, musiche di scena Nicola Piovani, scene Sergio Tramonti, costumi Nanà Cecchi, luci Paolo Manti. Produzione Marche Teatro in coproduzione con Franco Parenti. A Roma, Teatro Eliseo, fino al 20/3. In tournèe.

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