Shakespeare a Napoli
¦ È stato solo un assaggio. Un prologo. E tale si intitolava la prima edizione del Teatro Festival Italia che a Napoli ha avuto il suo battesimo in attesa della kermesse vera e propria nel 2008. Ad anticiparne la progettualità è stato un cartellone di grande interesse. Anzitutto una massiccia presenza giovanile sia di pubblico che di compagnie per la rassegna Nuove Sensibilità, che ha visto trenta giovani gruppi con brevissimi progetti destinati a futuri spettacoli. E spettacolo compiuto è diventato Per Amleto, Premio Dante Cappelletti 2006, e presentato all’interno del festival. Ricco di inventiva farsesca e di immagini surreali, la rivisitazione del classico shakespeariano vede due becchini disoccupati che attraverso la loro arte di attori sono costretti a ricordare ad un principe smemorato la sua storia. La bara diventa cassapanca dei travestimenti dalla quale estraggono oggetti e costumi di scena. Comico e tragico, bellezza e sciatteria si mescolano con vitale sapienza teatrale grazie alla bella prova dei tre interpreti: Michelangelo Dalisi (anche regista), Francesco Villano e Salvatore Caruso. E il duello finale tra Amleto e Laerte, diventa una straordinaria danza di corpi e di spade. Ancora Shakespeare con Mario Martone e il suo Falstaff. Un laboratorio napoletano – che attinge dall’Enrico IV – catapultato in una Napoli di guerre camorristiche. La banda del gaglioffo e bonario Falstaff è capeggiata da un superbo Renato Carpentieri affiancato dal principe Hal di Lorenzo Gleijesis, giovane boss in ascesa diventato poi re. Martone ha lavorato con giovani attori e ragazzi dell’Istituto penale per minori di Nisida, intrecciando realtà e finzione, malessere sociale e riscatto esistenziale sulla scena del San Ferdinando che prolunga le azioni su due pedane in mezzo alla platea. C’è un acre con- trasto – spiega il regista – tra la forte contemporaneità di questi ragazzi e la dimensione demodé di Falstaff. Per lui la rapina è ancora un gesto romantico, seppure criminale, originato dal bisogno di procacciarsi da vivere; mentre oggi la rapina rappresenta solo un macabro gioco rituale, fine a sé stesso. Lo sconvolgente cinismo di Hal, la sua freddezza e il vuoto che sente dentro di sé ci suggeriscono qualcosa di un tempo successivo in cui non c’è spazio per morali di nessun tipo, spazio composto solo di maschere e automatismi. E di maschere, di animali, è pieno il Sogno di una notte di mezza estate rivisitato dalla inedita coppia Ostermeier-Macras: lui regista di teatro della Schaübune di Berlino, lei coreografa argentina da anni in Germania. Invece del bosco incantato siamo in uno stanzone di vetro con numerose porte di entrate e di fughe – luogo di contraddizioni – nella bolgia di una festa. I personaggi si trasformano continuamente in un gioco di mascheramenti che culminerà nell’emblematica scena finale. Spenti i suoni della rock band, finito lo stordimento, tutti vanno via. Cala il buio ed Ermia, impaurita, si aggira sola nella casa vuota gridando invano: C’è qualcuno?. La fragilità e la conflittualità dei rapporti umani, lo smarrimento delle identità, l’insicurezza dell’amore e la solitudine trovano in questo Sogno una rappresentazione di grande impatto, anche se formalmente molto caotica. Giuseppe Distefano