I sette giorni di Gioacchino Murat
Quarant’anni, cresciuto a Rosarno (l’antica Medma fondata dai locresi nella seconda metà del VII secolo a. C.), Gianluca Sapio è archeologo specializzato e docente di Storia dell’arte nei licei. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, dopo aver esordito nella narrativa con Una voce nel vento (Luigi Pellegrini Ed.), così introduce Sette giorni (Scatole Parlanti Ed.), il suo secondo romanzo, incentrato sull’«episodio forse più noto e controverso della storia moderna calabrese: l’uccisione del re Gioacchino Murat, a conclusione di un periodo tra i più travagliati e intensi della storia europea»:
«Anche sette giorni, se ben letti, riescono a dipingere uno spaccato di vita che ci racconta tante cose il cui significato può trascendere il particolare per assumere valori più generali. E la Storia, quella con la “S” maiuscola, quella évenementielle, a pensarci bene, è anche un po’ questo: un insieme di piccoli segmenti temporali che, concatenati, compongono i grandi avvenimenti, le grandi battaglie, le epiche rivoluzioni. Ma cosa si cela in quei segmenti temporali? Quante altre storie, stavolta con la “s” minuscola, si possono scoprire in quegli anfratti di vita? I “sette giorni” raccontati in queste pagine vogliono essere proprio questo; l’incontro e l’intreccio di tante piccole storie sullo sfondo di una storia più grande: l’epilogo della vita di Gioacchino Murat».
Non è la prima volta che mi interesso alla vicenda del cognato di Napoleone che, rimosso dal trono delle Due Sicilie ritornato ai Borbone, terminò la sua vita avventurosa a Pizzo Calabro mentre con pochi ardimentosi tentava la riconquista del regno: nel 2015, infatti, bicentenario della sua fucilazione per volontà di Ferdinando IV, ero rimasto intrigato dal poco affidabile resoconto fornito da Alexandre Dumas, scrittore che gioca con la storia, reinventandola da par suo.
Viceversa a Sapio, autore professionalmente affascinato dallo scorrere del tempo e dai suoi risvolti negli eventi umani grandi e minuti, è stato necessario un approfondito studio dei documenti per arrivare a stabilire – al di là della propaganda politica filoborbonica e di quella contraria alla dinastia napoletana, specie dopo l’Unità d’Italia – la verità sulla fine dello sfortunato “Muratto”, come lo chiamava il popolino. Il risultato è un vivace affresco storico che ricostruisce anche il vissuto quotidiano di un borgo marinaro all’epoca fiorente per la pesca del tonno, con le abitudini, i comportamenti e le tradizioni della gente del posto: popolani e membri della piccola nobiltà come don Liborio, «uno dei personaggi più ammirati durante le passeggiate domenicali. Non aveva interessi culturali veri e propri, abitava in un piccolo paese della più sperduta delle province e saper leggere, scrivere e far di conto gli bastava per essere annoverato tra gli intellettuali del paese».
Tra i personaggi di fantasia, il giovane pescatore Nato (Fortunato), un trovatello che mal sopporta l’egemonia di Turi, il padre adottivo, e smania per rincorrere i propri sogni, uno la cui vicenda sfiora appena quella di Murat: lo intravede infatti da lontano, la mattina dello sbarco con i suoi uomini, e infine la notte dopo l’esecuzione mentre il feretro con la salma viene furtivamente introdotto – per finire nella fossa comune – in quella stessa cattedrale di San Giorgio di cui egli, da re, aveva finanziato il restauro.
I sette giorni nei quali è scandito il romanzo vanno dal sabato 7 ottobre 1815, quando due imbarcazioni con a bordo l’ex sovrano e i suoi fidi giungono in vista della costa calabra, al venerdì 13, giorno della sua fucilazione e solennità di un altro re, sant’Edoardo confessore. In questo lasso di tempo è un passare continuo dai colloqui formalmente cortesi tra l’illustre prigioniero e colui al quale è affidato in custodia, il generale Nunziante, alla parlata dialettale di Nato e dei suoi conterranei (utile il glossario alla fine del volume), popolani all’oscuro di ciò che avviene dietro le grigie muraglie del castello e in definitiva poco interessati a quale re prestare obbedienza, tanto più che rivoluzioni e avvicendarsi di potenti hanno sempre cambiato di poco la sorte della povera gente in quel borgo tra i più marginali del regno.
Sapio descrive con grande efficacia il progressivo passaggio di Murat dalla speranza iniziale di trovare un Ferdinando clemente allo sconforto, quando intuisce il destino che gli si prepara; dalla paura, da lui mai provata perfino nei più cruenti scenari di guerra, alla farsa del processo sommario che lo vede pronto ad affrontare il plotone d’esecuzione con regale dignità. Prima di tutto questo però, nella sua cella piantonata da quattro soldati della guarnigione, ha avuto il tempo di rievocare passate vittorie e il tradimento del comandante della sua barca che l’aveva consegnato ai borbonici; e poi di scrivere un commovente addio ai suoi congiunti, esuli in Austria. «Pensò alla moglie, ai giochi e ai momenti passati con i figli tra le belle stanze della Reggia di Napoli; sperò che per loro il suo ricordo potesse diventare una guida importante nella vita. Era certo che tutto il bene che era riuscito a condividere con la sua famiglia non si sarebbe disperso e non sarebbe stato dimenticato come invece era avvenuto per il suo operato di sovrano…».
In effetti, complessivamente Murat si era dimostrato un buon re e sincero era stato il suo attaccamento al popolo, al punto da entrare in contrasto con lo stesso Napoleone, che considerava il regno delle Due Sicilie satellite dell’impero francese. Pur tra luci ed ombre, l’antico stalliere di Labastide-Fortunière, poi generale e protagonista del “decennio francese”, aveva portato un’aria nuova nello Stato borbonico, dando un colpo durissimo al feudalesimo e avviando una intensa stagione di riforme sociali. Ultimo suo sogno, la “campagna d’Italia” lanciata con quel Proclama di Rimini che la storia registra come atto fondativo del nostro Risorgimento.
Quella stessa notte, approfittando del sonno di Turi, il pescatorello Nato si appresta a lasciare per sempre il povero “basso” in cui ha trascorso la prima giovinezza per seguire la sua strada. Sta per uscire quando nell’oscurità intercetta Mela (Carmela), la madre adottiva che, intuite le sue intenzioni, invece di trattenerlo lo lascia andare, non senza averlo coperto con la giacchetta “buona”, quella delle feste. «Gli occhi di Nato divennero lucidi, aveva capito che dietro l’atteggiamento silenzioso e schivo di Mela c’era stato sempre un profondo affetto materno; lei lo aveva cresciuto come un figlio vero e tale si sentì, per la prima volta, in quel momento nel buio di quella notte».
Mentre Murat passava alla Storia con la “S” maiuscola, toccava a lui, ora, iniziare una nuova tappa della sua piccola storia.