Serve ancora il G8?
Tre giorni di lavoro e una lunga preparazione. Eppure del G8 tenutosi a Toyako, nell’isola giapponese di Hokkaido, è risaltata solo una visione condivisa sui cambiamenti climatici che richiede una drastica riduzione delle emissioni di gas serra. Ma senza fretta… entro il 2050, nonostante il riscaldamento del pianeta sia considerato una delle più grandi sfide del nostro tempo. Forse per lasciare ampio spazio alle decisioni dei singoli Paesi o alla non-decisione di chi si ritiene non colpevole dell’inquinamento imputato ai Grandi della terra. Per il resto il documento conclusivo ripropone formule standard, proprie dei vertici internazionali, per caratterizzare anche questo G8. Infatti, delle decisioni finali ben poco corrisponde alle aspettative della vigilia: crisi dell’energia, crescita dell’inflazione, crescita dei prezzi degli alimenti e aumento degli affamati, turbamenti dei mercati finanziari e degli assetti monetari. Trattandosi di argomenti rilevanti e di forte impatto per l’intera comunità internazionale, non solo per gli otto Grandi, si attendevano impegni precisi. Certo, guardando l’agenda di oggi, affiora il ricordo di quando, nel 1975, il presidente francese Giscard d’Estaing convocò i colleghi di Germania occidentale, Italia, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti (a cui oggi si affiancano quelli di Canada e Russia) per discutere sui principali problemi delle economie industrializzate. Anche allora le decisioni comuni furono poche (mentre di tutto rilievo fu l’impatto politico, diventato negli anni sempre più mediatico) di fronte all’impennata dei prezzi del petrolio, alla malnutrizione che toccava circa il 30 per cento della popolazione mondiale (oggi siamo al 17 per cento) ed alla mancata crescita della maggior parte dei Paesi del mondo, con il fallimento delle strategie dei Decenni per lo sviluppo proclamate dall’Onu sin dal 1961. A Toyako le risposte concrete si sono fatte attendere, lasciando prevalere la cosiddetta retorica della promessa, fatta di stanziamenti, contributi, piani d’azione, mai resi operativi: lo ricordava Benedetto XVI alla vigilia dell’incontro, unendo l’appello alla solidarietà con la richiesta di realizzare gli impegni assunti nei precedenti appuntamenti. Ma se povertà estrema, fame, malattie, analfabetismo che colpiscono ancora tanta parte dell’umanità sono lo scenario di ogni G8, ad ogni appuntamento le decisioni comuni diminuiscono, mentre cresce l’interesse per intese particolari: in Giappone le riunioni con gli esterni, 14 Paesi di cui sette africani, hanno assorbito gran parte del vertice. La questione è, dunque, la legittimità del G8 che pur rappresentando oltre 850 milioni di persone e il 40 per cento dell’economia mondiale, non è l’espressione di valori comuni, bensì di interessi paralleli. Per anni il G8 si è proposto come strumento alternativo alla burocrazia delle istituzioni internazionali, una sorta di direttorio capace di assumere decisioni per il mondo intero. Dimenticando che la sua fisionomia se esprime il ruolo delle economie più avanzate, ne evidenzia anche la vulnerabilità di fronte a fattori – la crisi energetica, i fenomeni speculativi… – che hanno ormai una dimensione globale non più di causa ed effetto, bensì nella ricerca di soluzioni che richiedono una governabilità fatta di analisi, strategie, decisioni, controlli sempre più allargata. Ammettere al tavolo del G8 i membri del G5 (Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa) e cioè l’80 per cento della popolazione e il 20 per cento dell’economia mondiale, può non bastare. Governare la globalizzazione significa unire visioni e interessi contrapposti, legando questa unità a valori comuni su cui si fonda la condivisione delle regole.