Serve ancora educare?
Più ci si addentra nella lettura di questo testo, anche il suo titolo (Quando la scuola educa) diventa l’emblema di quello che tutti noi profondamente ci auguriamo e speriamo per la scuola stessa: che mentre doverosamente insegna sappia anche responsabilmente educare.
Una conferma la riceviamo entrando nei racconti di vita scolastica che il libro presenta attraverso la viva voce degli stessi insegnanti e dirigenti. Educare a scuola non solo è possibile ma, nel flusso continuo dei cambiamenti, assume oggi carattere di priorità, più importante del conoscere stesso. Educare “on purpose”, di proposito cioè, intenzionalmente, uscendo dall’improvvisazione, dal disimpegno o dalla passiva accettazione dello scorrere degli eventi, del martellante condizionamento dei media.
L’insegnamento tradizionale si basa prevalentemente sull’informazione e sulle conoscenze, ma ciò non è sufficiente. Nella vita non basta sapere. Infatti, in una società straripante di dati, il problema formativo si sta spostando necessariamente dalle informazioni alla loro gestione, alle capacità di scelta-selezione-organizzazione-valutazione, ma parallelamente, forse ancor di più, al senso stesso del conoscere (De Beni 2016). Un’avventura avvincente e “rivoluzionaria” che, intelligentemente orientata ai significati e al valore di ciò che si apprende e che si vive, dà sapore alla fatica del sapere, alla responsabilità del riflettere, alla forza del ricominciare.
Occorre, allora, incrementare un interesse più radicale e coraggioso per l’educazione, non solo rivolto alle giovani generazioni ma anche ai loro educatori. Come osserva Luciano L’Abate, «imparare a diventare e a comportarsi da esseri umani […] è molto più difficile che imparare una professione o qualsiasi abilità lavorativa. Sfortunatamente molti di noi diventano dei professionisti prima di crescere come esseri umani» (L’Abate 2000, 15).
Si comprende, allora, come nonostante i nostri continui richiami all’intelligenza, forse oggi è il tempo di occuparsi anche della saggezza. Perché, se ci si preoccupa di diventare saggi, non è così difficile poi diventare anche intelligenti. Come sostiene Edward De Bono (1990), se si comincia invece dal voler esser intelligenti si hanno poche speranze di diventare saggi, perché è facilissimo cadere nella trappola dell’intelligenza.
È questo, in fondo, anche il semplice ma profondo messaggio dei racconti di buone pratiche scolastiche riportate nel libro. In questi ambienti dove si sperimenta un nuovo senso di sé e di reciproca appartenenza, di alta motivazione all’impegno e alla responsabilità, e si punta alla formazione dell’eccellenza morale, gli studenti raggiungono anche straordinari gradi di successo scolastico. Nella disarmante semplicità di questo libro si cerca, allora, di dimostrare, che se si insegna ai ragazzi a esser “buoni”, si può anche imparare a esser “grandi”, “bravi” nel senso ampio e più autentico del termine, eccellenti nello studio, cittadini partecipi e onesti: un’alta finalità educativa che potremmo sinteticamente racchiudere nella frase “Pensare bene per fare il bene”, sguardo profetico di un’educazione dinamicamente orientata allo sviluppo di un vero ben-essere della persona e della comunità.
In questa prospettiva la scuola deve contribuire, in un patto d’alleanza con le famiglie e la comunità, a orientare a domande di senso, che se “ascoltate” possono anche permettere di ritrovare la ragione della vita, riabilitando cuore e cervello umano, desiderio e bisogno, ragione e sentimento, per fare una nuova esperienza interiore, circa quella soggettività che costituisce «un dato inerente all’essere e all’ontologicamente essenziale» (Jonas 1988, 39).
Da “Quando la scuola educa. 12 progetti formativi di successo” di Samuel Casey Carter, pp. 200; € 15,00. Città Nuova, 2016