Sergei Polunin, star fuoriclasse del balletto
Il suo nome è conosciuto non solo agli appassionati di balletto, grazie a Take me to Church, video del 2015 firmato dal fotografo e regista David LaChapelle con la coreografia di Jade Hale-Christofi, diventato ben presto virale su YouTube, visualizzato oltre 22 milioni di volte, in cui, l’oggi 28enne ballerino ucraino, sulla canzone di Hozier, danza un lancinante assolo in cui c’è espresso in pochi minuti tutta la sua vita e la ritrovata pace con se stesso.
Talento da fuoriclasse, naturale carisma scenico, tecnica d’acciaio, virtuosismo felino e morbido. Le sue magnetiche performance con quei salti sospesi e le piroette in aria, sono un’esplosione di energia pura. Sergei Polunin non ha il divismo da star, bensì una naturalezza e una sincerità che lo fanno essere sempre se stesso in scena e nella vita, con quella carica di umanità e di innocenza, e quel senso di libertà e di ricerca che continua a segnarlo anche nella vita artistica.
C’è chi frettolosamente gli ha affibbiato l’attributo di “bad boy” per via delle sue passate trasgressioni: droga, eccessi, affermazioni provocatorie, sparizione dai teatri, e per alcuni graffi sul petto e dei tatuaggi in molte parti del corpo che disegnano una vera mappa di tutta la sua vita, dove il tattoo più visibile, il Kolovrat, la “ruota” simbolo di una divinità solare slava, è sugli addominali. Ma Polunin non rientra in quel facile binomio di “genio e sregolatezza” o di “bello e dannato” con cui prontamente si voleva etichettarlo. La fama e la fulminante carriera è legata all’innegabile bravura di ballerino. A segnarlo interiormente è stato un malessere crescente e una (in)sofferenza (legata anche alla separazione dei genitori), che a soli 24 anni e nel pieno del successo, lo avevano fatto decidere di abbandonare la danza. Nel 2015, dopo la crisi e una peregrinazione artistica attraverso i teatri russi, gira un clip, Take me to Church, che doveva rappresentare il suo addio alle scene. Invece è l’inizio di una nuova vita, di un equilibrio e di una nuova libertà ritrovati.
La sua storia fino ad oggi si può conoscerla nel biografico film-documentario Dancer di Steven Cantor che, attraverso interviste e filmati di archivio, ricostruisce le vicende famigliari e artistiche del prodigio della danza iniziata da bambino nella povera cittadina di Cherson nell’Ucraina degli anni ’90. Desiderosi di garantirgli un futuro sulla strada della danza, i giovani genitori (che successivamente si separeranno segnando fortemente l’animo del figlio) compiranno sacrifici enormi per poterlo mantenere agli studi (il padre va a lavorare come operaio in Portogallo, la nonna in Grecia). Con la madre si trasferisce a Kiev per studiare al Kiev’s State Choreographic. Poi, nel 2003, grazie ad una borsa di studio della Rudolf Nureyev Fondation, Polunin accede, a 13 anni, alla British Royal Ballett School di Londra. Anni di duro lavoro, di dedizione esclusiva alla danza, ma anche di solitudine e di sofferenza per la lontananza dalla famiglia. Brucia le tappe. Quei sacrifici sono coronati appena 6 anni dopo, nel 2010, dalla nomina a primo ballerino, il più giovane della storia del prestigioso Royal Ballet.
Quegli anni saranno segnati successivamente anche dalla ribellione che lo porterà ad abbandonare improvvisamente, con grande scalpore, la prestigiosa Compagnia perché, insofferente dell’ambiente e delle costrizioni. «Sentivo che l’artista che è in me stava morendo», ebbe a dichiarare. Non voleva diventare un prodotto, una macchina da soldi, ma fare di sé stesso pura arte. Sfuma però il sogno di andare in America. Nessuna compagnia lo vuole perché bollato di inaffidabilità. Ripiega in Russia e riparte da zero partecipando a un talentshow. Ed è grazie a Igor Zelensky, all’epoca direttore del Teatro Stanislavskij di Mosca, che ricomincia la sua ascesa. Diventa primo ballerino a San Pietroburgo, mantenendo però la libertà di potersi esibire altrove ed impegnarsi in progetti personali. Tra questi il recente Project Polunin creato per unire ballerini, coreografi e altri artisti. Fa parte del Progetto lo spettacolo Satori approdato anche in Italia al Regio di Parma e al Comunale Luciano Pavarotti di Modena per “Modenadanza”, che ha riunito alcuni interpreti provenienti dal Bolshoi, dal Teatro Stanislavskij di Mosca, e dal Balletto del Cremlino, e con Natalia Osipova, stella del Royal Opera House, fidanzata e partner di Polunin. Lo spettacolo si apre con il breve assolo First Solo, del coreografo Andrey Kaydanovskiy su musiche originali, quasi il marchio di un viaggio alla scoperta di sé che mostra, attraverso quel corpo scolpito e psicologicamente segnato, l’irrequietezza di Polunin tra posture rabbiose, cadute, agonie e risollevamenti, e la grazia riconquistata fino a incamminarsi verso il futuro. Col secondo brano Scriabiniana, Polunin rende omaggio al balletto sovietico del primo ’900 rispolverando un titolo storico (del 1962) a noi sconosciuto, di Kasyan Goleizovsky. Scriabiniana si compone di 11 parti sulle musiche di Aleksandr Scriabin: una successione di passi a due senza una trama precisa, un caleidoscopico alternarsi di ritmi e di stati d’animo ora lirici, ora tormentati, ora sensuali, esteticamente piacevoli da ammirare. Sono evidenti quelle forme di movimento nello spazio e scolpite nell’aria da corpi bilanciati e fluidi contro la gravità, che sicuramente influenzarono la futura ricerca coreografica del maestro del neoclassico George Balanchine.
Ma il brano più atteso era l’autobiografico Satori, prima coreografia assoluta firmata dallo stesso Polunin. Rifacendosi al termine buddista del titolo, che significa “risveglio improvviso” o “illuminazione”, questa nuova creazione – che si avvale delle scene di David LaChapelle e le musiche originali di Lorenz Dangel –, rappresenta il proprio percorso di ricongiungimento fra l’amore per la danza e la passione per l’arte, passando attraverso le vicende che lo hanno segnato, fino alla rinascita. Sulla scena dominata inizialmente da una moltitudine di piccoli monitor sospesi sui quali scorrono rumori e voci di un mondo virtuale, campeggia un grande albero sotto il quale siede per poi staccarsi Poulin e iniziare il suo percorso di ricerca verso l’illuminazione. La comparsa di una donna – Elena Solomianko in sostituzione, a Modena, di Natalia Osipova –, che rappresenta “lo spirito della sua essenza più pura”, lo spingerà nelle profondità del suo sé interiore affrontando i dèmoni della sua coscienza sepolta.
Ed ecco, tra lo scorrere di nuvole, bianchi teli, ombre minacciose, e altre simbologie, apparire un ragazzino a evocare i ricordi d’infanzia, l’innocenza perduta, l’amore e il distacco dalla madre; e poi le lotte, i turbamenti, le gioie, le aspirazioni, le ribellioni. Se è innegabile la bravura di Polunin, che cattura l’attenzione per l’intensità espressiva e lo spirito che lo anima, che conquista per le prodezze virtuosistiche mandando in visibilio le schiere di fan accorsi, l’insieme risulta appesantito oltre che da una scenografia sovraccarica soprattutto da una tessitura drammaturgica e coreografica che fanno fatica a fondersi e a trovare un linguaggio di movimento meno retorico. Lo spettacolo andrebbe ripensato mettendolo nelle mani più esperte di un coreografo consolidato e dal vocabolario più moderno il quale, senza tradire le intenzioni, lo possa ripulire dei molti cliché con cui è costruito, perché possa acquistare quella bellezza profonda e originalità che gli mancano. Ce lo auguriamo. Come ci auguriamo che Polunin sappia gestire con oculatezza le sue prossime scelte artistiche – magari con la guida di un mentore come lo è stato Igor Zelensky – per non correre il rischio di disperdere altrove lo straordinario talento.
Desideroso di continuare a crescere, imparare e progredire, curioso anche di sperimentare altri linguaggi, Polunin intanto ha intensificato la sua presenza al cinema dopo l’esordio nel recente film di Kenneth Branagh Assassinio sull’Orient Express nei panni del conte Andreny, e successivamente in altri di prossima uscita: Red Sparrow, thriller di Francis Lawrence; The White Crow con Ralph Fiennes, film basato sulla vera storia della fuga in Occidente di Rudolf Nureyev, con Polunin nel ruolo tragico di Yuri Soloviev, altra grande stella della danza russa, morto suicida a soli 37 anni; e Lo schiaccianoci e i quattro regni con Keira Knightley, Morgan Freeman ed Helen Mirren.