Serata del disonore con Paolo Rossi

La crisi va in scena anche sul palcoscenico con battute irriverenti, rivoluzionarie, pirotecniche, incontenibili come sa fare il comico milanese
Paolo Rossi

Una scena nuda, semplice. Non ci sono quinte né alcun genere di artificio. Vecchie funi, due pedane in legno, delle chitarre e degli strumenti folkloristici. Sullo sfondo campeggia una scritta: «se non sai dove vai non ti perderai mai», parafrasi di un presente effimero.

Nello storico quartiere Testaccio di Roma è da poco terminato quello che da molti è stato definito un evento teatrale in 4D: Paolo Rossi ha spalancato il suo percorso creativo alla platea romana, dopo la soppressione della piece Povera Gente a causa delle onerose spese per la compagnia.

 

Il comico – milanese d’adozione – ha raccontato la contemporaneità nel modo che da sempre lo contraddistingue: irriverente, rivoluzionario, pirotecnico, incontenibile. Tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento nelle cosiddette serate d’onore gli attori ripercorrevano il loro repertorio visto da fine carriera all’inizio.  L’artista ha invece sconvolto anarchicamente tutta questa forma con acuta cattiveria, annunciando la distruzione di tutti i pezzi forti del suo passato.

 

La crisi, appunto, ha colpito anche il guitto più abietto che si ritrova scalzato dalle istituzioni e dall’uomo comune che ha battute migliori da raccontare all’interlocutore, ormai abituato a fagocitare di tutto: i tempi storici e culturali sono quelli che sono, bisognerà improvvisare. E anche la vita da bohémien non è più quella di una volta ha ribadito l’attore

 

Nello spettacolo c’è un legame stretto tra il vero e il verosimile. S’intrecciano vorticosamente la carriera pubblica dell’attore con la sua vita privata: la carrellata di episodi personali ma collettivi, sono comici ma dal retrogusto amaro. Amaro come il gin tonic che a lungo lo ha perseguitato, nonostante i tentativi di evitarlo gridando «”Io non entro”, davanti a tutti i bar da aperitivo e happy hour di Milano». Esilarante il rapporto con il prossimo e l’importanza della strada, una miniera preziosa per gli sketch sulla scia di uno dei suoi maestri, Dario Fo.

 

Particolare è il confronto con la Fede a tratti psichedelico, intellettuale e dissacratorio come le vecchie maschere della commedia d’arte.

In un passaggio della pièce, curiosa è la trasposizione pop della figura del Mefisto goethiano ora un travestito snob con la erre moscia che lo perseguita, ma anche l’irriverente voce mistica che Rossi avverte in un casinò mentre è intento a giocare al Black Jack.

Non poteva non mancare una critica all’Italia diventata una Repubblica fondata sullo stage con una canzone che punta il dito sulla scelta di giovani candidati, in prevalenza femminili selezionati più sulle doti fisiche che intellettive.

Notevole è la stoccata contro i reality show della tv generalista, in particolare il Grande Fratello e sulla necessità di fermare «il latente regredimento cerebrale della gente». Da qui l’istituzione di una Polizia della cultura che sia in grado di arrestare tutte le persone impreparate e che riesca a ridare un po’ di etica e di valori umani.

 

Centrale è stato l’omaggio al suo padre putativo Enzo Jannacci con due canzoni: l’Armando e Ho visto un re riadattato musicalmente in chiave rock-blues-folk dall’istrionico chitarrista Emanuele Dell’Aquila perfetta spalla ed ironico complice dell’artista originario di Monfalcone.

Grande richiamo per i giovani il linguaggio fresco ed informale di Rossi che li ha attratti numerosi. «Spegnere la televisione per rileggere vecchi classici, riaffollando le arene per ritrovarsi, debellando gli individualismi e stimolando la condivisione», era stato il consiglio del comico ai suoi fan.

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