Sepolta dalle ceneri s’alza la speranza

In scena a “Le vie dei festival”, la rassegna romana diretta da Natalia di Iorio, il testo di Tahar Ben Jelloun, un atto d’accusa contro l’ottusa stupidità di ogni guerra, dove la poesia è estremo baluardo, ultima speranza per il genere umano
Un momento dello spettacolo

Dentro il vasto spazio rettangolare dalle bianche pareti sfumate d'azzurro, tre figure sedute, vestite di bianco, simili ad angeli, s'alzano introducendo ciascuno il racconto della guerra che non lascia soltanto rovine. Sono i testimoni di una “no man's land” dove giacciono, coperti dalla polvere, i morti dei conflitti, di ogni conflitto, civili e militari abbandonati nel deserto o in mare o sulle nevi. I tre cantori estraggono cristalli da una valigia; poi sollevano lentamente l'enorme lenzuolo, simile a un sudario disteso a terra, rivelando la salma interrata di un uomo dentro un baule. È l'abbandono, la dimenticanza ad averlo tenuto nascosto, uno dei tanti corpi insepolti che non avranno mai una dimora, un nome.

 

Lentamente prende vita e inizia la sua narrazione, in lingua francese, di vittima e di testimone. Il suo è un vagare in cerca della strada di casa per essere sepolto, un ritorno alle origini per trovare la giusta pace. Fra poesia e sogno, in una lingua alta, lirica, densa di rimandi e di simboli, il tema civile si fonde con la poesia dell'autore Tahar Ben Jelloun nel suo “Dalle ceneri”. «Una volta che si è stesa una coperta di sabbia e di cenere su migliaia di corpi anonimi – scrive lo scrittore marocchino – si coltiva l'oblio. È allora che la poesia si solleva. Per necessità. Diventa parola urgente nel disordine in cui la dignità dell'essere viene calpestata».

 

Scritto subito dopo la Guerra del Golfo del 1990, anche se parte dalle sponde del Tigri e dell'Eufrate, il tema di “Dalle ceneri” si estende alla drammatica e crudele attualità delle guerre di oggi, di quelle arcaiche o ipertecnologiche, alle migrazioni interrotte, alle fughe dalla violenza e dalla miseria, alle rotte in cerca di approdi. Autore di questa intensa messinscena è Massimo Luconi, regista sensibile a un teatro dello spirito che parli all'interiorità delle persone, e da sempre attento alla cultura africana. Il regista toscano è frequentatore specialmente del Senegal dove, da alcuni anni, è impegnato in un percorso di formazione con attori locali e che l'ha già visto lavorare col mito di Antigone, spettacolo rappresentato in Italia e in Senegal.

 

Ed è proprio qui che ha scoperto un giovanissimo attore, talentuoso oltre ogni dire: il ventiduenne Ibrahima Diouf. È lui il protagonista del monologo, che incarna l'immagine del corpo calcinato di un soldato riesumato dalle ceneri diventando l'emblema della caducità di ogni crudele azione umana. È lui a dare voce ai fantasmi dei morti in guerra evocandoli con gli emozionanti versi di Ben Jelloun dal perfetto e armonioso ritmo narrativo che sfumano dal piano reale in una dimensione onirica.

 

Diouf siede sul baule – che è tomba e bara e casa –, lo trascina con sé avvicinandosi verso gli spettatori, ponendo loro domande e interpellandoli anche in ginocchio; tira fuori dalle tasche dei pantaloni della sabbia buttandola in alto; estrae oggetti dal baule come una vecchia casseruola, una tanica, una gabbia per uccelli, un pezzo di legno, e dei vecchi libri strappandovi poi le pagine; vi estrarrà anche un registratore dal quale si ode la canzone Avec le temp. Serrandolo a sé comincerà a ballare come se fosse un ricordo. Poi, dopo essersi lavato come per la purificazione prima della preghiera, intonerà un canto tradizionale, sommessamente, poi sempre più forte. Ritornerà infine dentro la cassa stendendosi con le braccia aperte e la testa indietro simile a un crocifisso, mentre scorrono immagini di gente d'Africa e d'infanzia, e una voce registrata insieme a un canto.

 

La tensione fisica di Diouf, forte e sensibile, aspra e sospesa, la sua intensa presenza scenica sostenuta da una recitazione che unisce ritualità e modernità, si fa preghiera, urlo, canto, voce di ieri e di oggi che grida nel deserto, poesia portatrice di speranza: «Questo istante io lo scrivo nel Libro degli uomini. Perché si ricordino di una stagione intessuta di crudeltà e perché dicano agli uomini che verranno: ciò che è accaduto mai accadde; l'occhio che ha visto non ha visto nulla; la mano che ha colpito non è che burrasca di vento; la bocca che ha urlato fu un errore nel fracasso delle armi inghiottite dalla sabbia».

 

A Roma, teatro Vascello, per “Le vie di festival”, l’1 ottobre.

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