Senza strappi nel cuore

«Madre è chiunque prega per noi che il respiro diventi destino...». E santa Ildegarda considerava madre Jutta, la monaca alla quale fu affidata a soli otto anni. Ce ne parla Lucia Tancredi nell'ultimo appuntamento della rubrica con la vita del nuovo dottore della Chiesa
Ildegarda

Quando Ildegarda arriva nel convento di Disibodenberg ha soli otto anni. Vi è stata destinata perché decima figlia e perchè di salute cagionevole. Jutta von Sponheim è una delle monache a cui verrà affidata. La sentirà come madre, le insegnerà molto, e le loro vite saranno per lungo tempo legate a doppio filo, fino all'età dell'adolescenza di Ildegarda. Ce lo racconta per l'ultimo appuntamento della rubrica Lucia Tancredi in Ildegarda. La potenza e la grazia.

«Jutta von Sponheim aveva ventidue anni quando entrai a S. Disibod.
Era bella, nonostante si ostinasse a ignorarlo. Quando parlava, movendo soavemente le labbra che risaltavano sopra il colorito d’opale, pareva una rosa. Era morbida in ogni cosa. Una rosa senza gli spini. Apparteneva al genere delle donne sanguigne cui il sangue dolce conferisce l’umore lieto, un utero saldo per fare da culla e la disposizione a rendere felice un uomo.
Suo padre, il conte Stefano di Sponheim, difatti, l’aveva destinata al matrimonio.
Ma lei, che era stata allevata dalle monache, non aveva vaghezza del mondo. Le bastava quel Cristo che attendeva sempre rimboccando, come fanno le vergini savie, l’olio della sua lucerna.
Quando non pregava o non meditava, guardava dall’unica finestra della sua cella un pezzo di cielo che pareva essersi attaccato agli occhi, che volgevano sempre al chiaro.

«Anche il suo rigore era morbido. Suo padre aveva fatto costruire per lei, addossata alla chiesa, una cella di clausura da alcuni chiamata sepulchrum, da altri ergastulum.
Aveva, questa cella, tre finestre: una comunicava con la chiesa, una con un parlatoio dalla cui grata chiunque poteva ricevere una parola o una benedizione. L’altra era la sua specola specialissima sul cielo. Per molti anni non vidi mai Jutta uscire da quello che pure ai monaci pareva un sepolcro murato.
Certe gabbie mettono disordine nell’animo. Altre, al contrario, operano e agiscono per forza di levare. Levano materia, calce e mattoni, sgomberano il campo visivo.
Se Jutta avesse reso felice un uomo assecondando la sua natura calda e umida, avrebbe mancato al proprio destino. Perché la natura ci getta sempre all’azzardo, così come una donna non può prevedere quando si rompono le acque di sotto.

«Ma Jutta il suo destino lo reclamava, lo braccava come chi ha trovato la pista esatta.
Da quel momento Jutta non si era più separata dal suo Bene, dal quel centro che aveva trovato dimora nella cella. La sua vera gioia era nel tacere, in quel soccombere alla ragione, nel guardare il cielo incollandolo agli occhi, nell’ascoltare i casi della gente – disgraziati che le gettavano addosso le miserie e i guasti del mondo di fuori.
Ma anche in questo caso lei ascoltava, a volte per ore, prendendo nella posa lo sbigottimento di certi buoni cani che cercano di essere il meno possibile per diventare tutt’uno con la volontà del padrone. Più non si sforzava di cercare, più trovava l’oggetto potente e magico. Più faceva il vuoto nella mente, più le veniva alle labbra la parola oracolante che per il disgraziato di turno si rivelava quella giusta, quasi una cifra esatta del destino i cui conti finalmente tornavano.
Tutta la forza di Jutta era nel suo essere il meno possibile, in quello splendido e raggiante non.
La fama di lei aveva attirato nel convento una serie di donne che allo stesso modo sceglievano una via negationis. Molte di queste avevano fiutato la pista giusta del destino.

«Altre, figlie cadette e spaiate delle grandi famiglie, già destinate alla Chiesa, guardavano al nome e alla protezione del conte di Sponheim. Altre ancora pensavano che non valeva la pena vivere come donne: sentirsi addosso un uomo non scelto, ubbidirgli e compiacerlo, generare figli uno dietro l’altro cercando nel corpo – sorte comune alle femmine ricche e a quelle povere – una forza di cagna. E seccarsi presto.
Quanto era meglio preferire, al mondo vociato e crepato delle donne del secolo, il rifugio quieto del chiostro, la meditazione e lo studio, il tempo che accarezza il corpo come fa con la natura, seguendo un ritmo, senza strappi nel cuore.

«A poco a poco si aggiunsero quindici monache, cui venne preposta un’anziana badessa che le governasse.
Quando feci il mio ingresso a Disibodenberg, le monache avevano un loro quartiere, non propriamente separato da quello maschile, tuttavia distinto, con il proprio pozzo, il forno, la cucina e l’ospedale. Pure una piccola cella a me carissima che col tempo divenne biblioteca.
Fu la badessa ad affidarmi a Jutta, poiché lei si pensava troppo vecchia e stanca per stare dietro a una bambina. Jutta, al modo docile che aveva di assecondare gli scarti del destino, accettò.

«Fu così che quel sepolcro mi donò, senza saperlo, il tesoro che tanto sospiravo.
Ed ebbi quella gioia ineffabile di essere figlia con la madre.
Una gioia che le parole non possono dire, ma solo una voce musicata.
Poiché quando la chiamavo – madre – molti suoni del paradiso mi venivano incontro e nella mia testa componevano una melodia.
Jutta non mi abbracciava, poiché nessuno le aveva insegnato ad avere confidenza col corpo.
Tuttavia era sempre lì, per me. Questo volevo.
Di notte la sentivo respirare, nel letto accanto al mio, e accordavo il mio respiro al suo, così come facevo quando pregavamo insieme. E se un tuono mi svegliava nel buio e io la chiamavo, lei rispondeva subito. Come se, oltre a dormire, vegliasse continuamente temendo, al modo delle madri, ogni mio lamento nel fiato.
In realtà di madri ne avevo due. Poiché Jutta, fin dal cominciamento, era stata affiancata da una serva che la famiglia le aveva imposto, affinché la sollevasse da ogni incomodo e non le facesse dimenticare di essere nata ricca. Questa serva in realtà era una lontana consanguinea, di un ramo della famiglia che era rimasto senza più sostanze. Si chiamava Berthe.

«Dio l’aveva creata perché fosse l’opposto di Jutta. E perché nell’antitesi si specchiasse la perfezione di entrambe. Apparteneva al genere di donne dalla natura flegmatica, dalle vene grosse, dal sangue sano ma con un poco di veleno che conferisce al volto un colorito bianco e un tratto quasi virile, lo sguardo diritto e pochi peli sotto il mento.
Per me Berthe era come la terra, quella calpestata, che è sostanza e ha potere crescente, fiorente e nutriente. Berthe, quando l’inverno faceva scorrere il sangue più lento e ritornavo intirizzita dall’orto, mi sfregava le mani con le sue, che aveva sempre calde e morbide come pagnotte.
Mi toglieva di dosso tutti quei lati di spigolo che fa il gelo col corpo, così come con l’acqua.
Allora diventavo liscia, tenera.
Ero finalmente felice, poiché il Signore mi aveva dato due madri.
Perché non c’è solo la madre del parto.
Madre è chiunque ci mette al mondo, badando che il nostro piede diventi orma terrestre, che il corpo prenda una forma, sorvegliando l’esercizio retto e sicuro della mente e pregando per noi che il respiro diventi destino».

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