Senza miracoli, la vita cos’è?
Napoli: una città che vive in simbiosi col suo santo e conosce la possibilità del miracolo
Il miracolo, per esser tale, deve arrivare subito. I miracoli che si fanno attendere non sono veri miracoli. Ne sanno qualcosa a Napoli, dove il miracolo è di casa ed è vissuto con autentica professionalità. Puntualmente infatti, tre volte l’anno – il sabato precedente la prima domenica di maggio, nelle ore serali, il 19 settembre e il 16 dicembre dalle nove alle dieci di mattina – il sangue di san Gennaro inizia a liquefarsi nel reliquiario del duomo di Napoli. E pure a Pozzuoli, nel santuario a lui dedicato: là dove, secondo la tradizione, nel 305 venne mozzato il capo al vescovo Gennaro durante le persecuzioni dei cristiani dell’imperatore Diocleziano. Da allora i napoletani iniziarono a coltivare una passionale, quasi viscerale, devozione per il “loro santo”, che in realtà era originario di Benevento.
Il fatto che conferì un tocco di verace professionalità ai miracoli di Gennaro avvenne nel 1527. Napoli era stata colpita da tre eventi drammatici: l’eruzione del Vesuvio, che aveva innescato diversi terremoti mietendo parecchie vittime; la peste, che di cittadini se n’era portati via 250 mila; la guerra tra Francia e Spagna, che pur’essa non li aveva risparmiati. E i napoletani che fecero? Si rivolsero al loro san Gennaro per chiedere il miracolo. Si rivolsero a lui con quella serietà tipicamente napoletana, di chi ha atavici globuli aristocratici nel sangue e, allo stesso tempo, possiede una certa familiarità con miseria e disgrazie, che nel corso dei secoli ha forgiato nella loro anima una malinconica spensieratezza, mista a un senso profondo della vacuità della vita. Che li rende allegramente fatalisti e ben vigili a non fidarsi di nessuno e di niente. Tranne che dei miracoli. Così, in quel 1527, i napoletani fecero voto al santo. Chiedendo però che fosse certificato da un notaio. Il documento, redatto in bella calligrafia, attestava che, se il santo li avesse liberati da quei guai, essi gli avrebbero costruito una nuova cappella. San Gennaro fece il miracolo. Subito. E i napoletani – gente d’onore e di parola, specialmente quando hanno a che fare con i santi – eressero la cappella, senza badare a spese.
La Napoli di oggi è ben diversa da quella narrata dal grande scrittore ungherese Sándor Márai nello stupendo libro Il sangue di san Gennaro (Adelphi), pubblicato nel 1957 e dedicato «a Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia; al pescatore monco, perché ammansiva il mare; a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati». Quella era la Napoli che lui aveva conosciuto abitandovi dal ’48 al ’52: una città brulicante d’umanità, nella quale si mescolavano nobiltà e malavita, religiosità e superstizione, solare buonumore e amara rassegnazione. Egli riuscì a descrivere l’anima dei napoletani, che in fondo resta immutabile attraverso i secoli. E seppe cogliere il legame, sottile ma inossidabile, dei cittadini partenopei con il miracolo, che «fra tutte le possibilità era per i napoletani la più verosimile».
Oggi i miracoli piacciono poco. Un paio di secoli d’obiezioni razionaliste e il cresciuto benessere ci hanno resi scettici. I miracoli sono guardati con diffidenza e una punta di snobismo: se piacciono ad alcuni, è per quel che comportano di sensazionale e spettacolare. Piacciono se fanno audience. È sempre più rara la seriosa disinvoltura che Márai avvertiva nelle chiese di Napoli e nei poveri bassi di Posillipo: quegli sguardi cauti rivolti all’immagine o alla statua del santo, come di chi contratta; quegli sguardi che, avendo soppesato con attenzione le possibilità che la vita prospetta, valutano che la più realistica sia quella del miracolo. Forse con altrettanta semplicità e determinazione si rivolgevano a Gesù, duemila anni fa, quelli che gli chiedevano una guarigione: e lui non faceva discorsi profondi sull’utilità della sofferenza e sulla sua funzione morale: semplicemente li guariva, li toglieva dai guai. E subito.
La parola miracolo deriva da un termine latino che significa “cosa meravigliosa”. E infatti, che cosa sarebbe la vita senza il miracolo? Senza la possibilità di quella cosa meravigliosa che a volte ci sorprende e ci dà gioia inaspettata? Ci ricorda che la realtà, le stesse leggi della natura, sono assai più vaste di quello che comprendiamo. Per nostra fortuna.
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Un evento senza precedenti
A Napoli, presso il Museo del Tesoro di San Gennaro sono esposte per la prima volta le “dieci meraviglie del Tesoro”: capolavori d’oro, d’argento, rubini, zaffiri, diamanti, smeraldi. Un tesoro mai rubato, se non nel delizioso film di Dino Risi Operazione San Gennaro: del resto a Napoli nessuno oserebbe toccare il “loro santo”, neppure la camorra.