Senza destino e senza tempo
La tragica morte, avvenuta lo scorso dicembre in un incidente stradale, di Winfried Georg Sebald, ci ha privati di uno scrittore considerato da molti critici uno dei grandi del Novecento. Per fortuna ciò che di lui ci resta – da Gli anelli di Saturno a Gli emigrati, ad Austerlitz soprattutto, pubblicato ora da Adelphi, per citare i suoi titoli tradotti in italiano -, è più che sufficiente ad apprezzarlo come tale. Prima però di soffermarci sull’ultima opera, che può considerarsi il suo testamento, è opportuno qualche cenno biografico su questo tedesco emigrato in Inghilterra, d’indole riservata e malinconica. Sebald nacque nel 1944 in un villaggio delle Alpi bavaresi da una famiglia molto modesta. Durante gli studi a Monaco di Baviera, il giovane Winfried rimase sconvolto dalla scoperta delle atrocità commesse dai nazisti. (Il padre, fra l’altro, aveva partecipato alle campagne hitleriane). In effetti, tutta la sua opera di scrittore sarebbe stata influenzata dallo shock subìto e dallo spettro dell’Olocausto. Compiuti gli studi a Friburgo, Sebald si trasferì prima in Svizzera e successivamente in Gran Bretagna, dove per circa un trentennio insegnò letteratura tedesca contemporanea presso l’Università di Norwich. Sia detto subito: Sebald non è autore facile, di evasione, avvincente per intrighi romanzeschi, ma scrittore colto, di pensiero, col quale occorre affrontare peregrinazioni, estraniamenti, esili: di ciò infatti parlano i suoi libri. E tuttavia scrittore affascinante come pochi, quando – andando oltre qualche pesantezza enciclopedica – ci si affida alla corrente del suo tipico modo di narrare. È un narrare per associazioni, un apparente divagare da un argomento all’altro, tra analisi magistrali dei dettagli e descrizioni di forte suggestione: come un fiume, appunto, che assorbe e trascina via i materiali più disparati, ma procede inesorabilmente verso la foce; un fiume lungo il quale quale è possibile scoprire paesaggi sempre nuovi e sorprendenti. Emblematico è, in questo senso, Austerlitz, la cui struttura non conosce suddivisioni in capitoli né capoversi, ma è un unico monologo del protagonista dall’inizio alla fine. Eppure una trama esiste. Jacques Austerlitz, professore di storia dell’architettura a Londra, è un solitario privo di affetti e povero di amicizie. I suoi vagabondaggi per tutta Europa – con un vecchio zaino in spalla e una espressione “sgomenta” alla Wittgenstein – sembrano unicamente mirati allo studio dei monumenti della modernità: stazioni ferroviarie, fortini militari, carceri, palazzi di giustizia… In realtà, figlio adottivo di una coppia gallese con cui è cresciuto, egli sta cercando di ricostruire le sue origini e la sua identità. E il passato emerge lentamente, nel corso del romanzo, ma è la rivelazione angosciante di un’odissea: quella del padre disperso, della madre finita in un campo di concentramento e di lui, bambino ebreo in fuga da una Praga occupata dai nazisti su un convoglio di profughi diretto in Inghilterra. Anche qui come negli altri suoi libri, Sebald ama integrare il testo con foto in bianco e nero che segnano le tappe di un itinerario della memoria e rappresentano l’unico bene per chi, vivendo come Austerlitz un’esistenza che poggia sul vuoto, ha la consapevolezza che la memoria del passato, pur essendo sempre fonte di dolore, va tenacemente difesa. D’altra parte, il rifiuto di quest’ orfano senza destino di portare orologi è rifiuto del tempo, ovvero speranza “che quanto è accaduto non sia ancora accaduto, ma stia appunto accadendo nell’istante in cui pensiamo”. Quasi aspirazione ad un eterno presente, dove poter trovare finalmente requie? La verità su sé stesso non è servita ad appagare la ricerca di Austerlitz, per il semplice fatto che all’uomo non basta conoscere chi è stato: gli occorre sapere anche dove andare, quale senso dare alla propria vita. Sebald non si avventura oltre la soglia del trascendente. Dio è avvertito lontano, assente, come talvolta accade a chi è oppresso da troppo dolore. Non a caso, forse, Austerlitz, a proposito del padre adottivo – il pastore Elias, impazzito in seguito alla morte della moglie – osserva che “l’infelicità accumulatasi in lui aveva distrutto la sua fede proprio nel momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno”. Un romanzo dolente, dal fascino malinconico, che conferma tutta la forza etica e narrativa di Sebald e che qualcuno ha già definito “il primo grande libro di narrativa del Terzo Millennio”. Un aiuto, anche, per capir meglio la condizione di sofferenza di tanta umanità che ci circonda. Winfried Georg Sebald, Austerlitz, Adelphi, pagg. 315, euro 16.